Cùmu ghèramu: à vìgna

Luigi Bisignani 

San Donato di Ninea  Lunedì 3 Febbraio 2025

Minucciu bbì cùnta; Cùmu ghèramu: à vìgna;

Continuando le ricerche sulla “Calabria che fu”, in particolare sulle condizioni di vita e di lavoro delle popolazioni contadino-bracciantili nella provincia, mi sono imbattuto nel resoconto sulla viticultura nelle nostre zone, che Vincenzo Padula fece il 20 luglio 1864 sul giornale il Bruzio, da lui fondato e diretto.

Nel resoconto il Padula ci dice che la classe dei vignaiuoli era emersa e si era affermata non da molti anni addietro.

Fra gli appezzamenti di terreno vitato sul territorio,annovera pochissime grandi estensioni; moltissimi invece quelli di dimensioni minime, ubicati nei pressi dell’abitato e coltivati, con metodi antiquati che determinavano una bassa resa ed una cattiva qualità dei mosti, dai quali si ottenevano basse quantità di vini,destinate più che altro al consumo locale, ma di scarso pregio e di breve conservabilità, quindi senza sbocchi commerciali. Tutte dette circostanze erano dovute al cattivo uso degli ammendanticruòpu), ai frequenti e devastanti attacchi di infestanti e fungini, nonché alla  scarsa conoscenza ed applicazione della scienza enologica, all’epoca patrimonio  delle imprese vitivinicole nei grossi feudi di Sicilia e Puglia o delle grandi aziende di Toscana e  Piemonte.

Se ne trae conclusione che l’agricoltura grama generavamiseria e cattive condizioni di vita e di lavoro. In corsivo il testo del Padula:

Da noi i terreni vignati sono a breve distanza dal domestico; e, al primo verdeggiare che si vegga innanzi dei pampani il viaggiatore può dire: Indi ad una, due ore io sarò giunto nel paese, a cui vado.

Nessun genere di proprietà è così diviso e così comune quanto quello delle vigne: son piccole di estensione, ma appartengono a molti, ed una casa ed una vigna fanno che un uomo nostro si tolga al numero dei proletarii ed entri in quello dei benestanti.

Il proverbio che dice Per la casa e per la vigna Si marita la signa (scimia)”, ritrae a capello questa condizione di cose.

L’ultimo del nostro popolo ha una casupola, ed una fetta di terreno avvitito; l’una è una topaia, l’ altra è simeschina che, come diciam noi, un asino a voltolarvisi ne uscirebbe fuori con la coda e con l’ orecchie; ma è sempre un conforto pel nostro contadino il potere dare in dote alle figlie, che si maritano, dieci ceppi di vite.

Le vigne non son divise da mura, ma da siepi di rogo, diranno, di sambuco, e di ginestra; spesso da un viottolo, e solo dal lato che toccano la strada maestra si cingono con muricciuoli, non così alti però che il passaggieronon possa scavalcarli, e spingere oltre la mano a spiccarsi un grappolo.

Le viti sono, come il più delle donne calabresi, condannate al celibato, e non si maritano a pioppi, ad olmi, a cirieggi; ma si allevano nane, alle poco più di tre palmi, legate con ritorte di ginestra a tutori di castagno, e a breve distanza tra loro.

Solo quando la vigna è grande ed ha un bel palmento, le si fa un viale per lo mezzo, sul quale s’ingraticolano pali a foggia di palco per ricevere le viti, che vi s’inerpicano.

Ma questa sorta viti pergolane si educa meno per averne mosto, il quale, scorta la esperienza, riesce sempre di poco polso, che per ottenerne uve serbevoli e mangerecce d’inverno,

Il pane al vino è malo vicino, dice un nostro proverbio, e però le vigne non si coltivano mai a grano, se non quando siano da guari tempo trasandate; e solo nel caso che il terreno sia fondato o panconoso vi si piantano fave o piselli, e spesso lupini non per averne frutto, ma per farne sorvescio.

Qua e là vi si vedono fichi, cirieggi, susini, melogranati, meli, peri, olivi, ma radi e lungo i fossati, dove non possano aduggiare troppo le viti.

E il vario aspetto che ne nasce è veramente dilettevole, e più dilettevole è la vista delle nostre donne di tutte le condizioni che vi si recano quale a diporto, e quale a raccorre le frutta con sporte e sportelle. E ciascuna visitando la sua fetta di vigna ha occasione di stendere le mani rapaci sulla vigna vicina; e tra per questo, e tra per l’amore che si la naturalmente alle possessioni prossime all’abitato, ciò che in Calabria difficilmente si vende è appunto la vigna.

Ma il frutto che se ne riceve è sempre scarso: si ruba l’ agresto per farne insalata, si rubano le uve tosto che pigliano ad essere violate, ed oltre a non essere sicure dall’avidità dei vicini, ciascuno che può portare le armisi mette il moschetto in spalla, e sotto sembiante di condursi a caccia entra nelle vigne altrui, e ne pilucca le uve.

Arroggi il guasto che vi fanno i cani, arroggi la rea consuetudine d’ogni vetturale e passaggiero di scavalcarne agevolmente le chiudende, e vedrai che il loro frutto non risponde ai voti dei proprietari. –

In molti luoghi è però invalso l’uso di distinguere i terreni vignati in varie contrade, e deputarvi a custodia, finchè non si vendemmi, parecchi guardiani, a cuiciascun padrone dà due lire.

Ma i Guardiani non sono sempre fedeli ed onesti: son dieci ladri pagati e messi nel luogo di cento, e che rubano quanto i cento; possono pure impedire gli altrui furti, perché se gl’impediscono di giorno, non lo possono di notte.

Vero è sì che sulle tre ore dopo il tramonto tirano un colpo di moschetto in aria per dire ai ladruncoli: Noi vegliamo a veletta; ma i ladruncoli la intendono altrimenti e rispondono: La è questa l’ora nostra; i guardiani vanno a dormire.

Dopo la vendemmia le vigne si abbandonano affatto: i poveri vi saltano dentro a raspollare; pastori, porcari, bovari vi immettono gli animali, e le viti si smozzicano, e gli arbuscelli si scalpicciano; poi viene inverno, e i poveri vanno a caccia di legna per ardere, e tagliano le viti, e ne involano i tutori; poi sopraggiunge primavera, e gli animali nomadi, non ostante le grida dei padroni, rientrano nelle vigne ch’erbiscono; e così le più belle appaiono a breve andare sciupate, spalate, scarmigliate.

Questi mali non avvengono per le vigne che fan parte d’un podere, perché lì è un colono che le custodisce; ma questa sorte vigne è poca cosa tra noi: il più sono, come dicemmo, isolate, e a breve distanza dal paese.

Egli è perciò che da non molti anni addietro le vigne si danno ai vignaiuoli. E il vignaiuolo un bracciante, che non avendo bisogno per vivere di locare l’ opera delle sue braccia mentre dura l’inverno, si prende dal proprietario la vigna a patto di coltivarla, e di avere la metà del mosto. E la coltura procede così.

Le viti si potano a marzo, antica consuetudine suggellata dalla canzone popolare che comincia: Chianginu l’uocchi mia chiù de li viti; Veni lu misi e marsu e li putati; e quest’opera viene sorvegliata dal padrone, perché il vignaiuolo non lasci più di due capi a ciascuna vite, più di due occhi a ciascun capo.

Parte della potagione è la stralciatura (sarmentari ), e le donne chiamate a stralciare son pagate dal vignaiuolo, che divide col padrone le fascine dei sarmenti ad uso difuoco. Immediatamente la vigna si zappa, e questo lavoro procede con lentezza, perché si fa le più volte dal solo vignaiuolo, ed interrottamente. A maggio si sarchia(s’ ammaja) trattando leggermente con lo zappino il terreno per polirlo dall’ erbe.

Sull’ ingresso di giugno si spollona (sbarbula, ospitigna), lasciandosi a ciascuna vite, secondo sue forze, due o tre sarmenti; ed in luglio finalmente si lega. Quando il vignaiuolo è solerte, non solo con una stroppella di ginestra raccomanda le viti ai tutori, ma sopra una serie di più pali ne mette un altro a barbacane, e dà così alla vigna un aspetto grazioso.

Appare divisa da cento viottole parallele, per le quali si va senza l’impaccio dei pampani e dei tralci, che coi loro capreoli o cirri si attaccano ai pali verticali edorizzontali; e quell’aspetto diviene più grazioso, qualora il vignaiuolo abbia negl’interstizi delle viti piantato zucche, cavoli, cocomeri, e frumentone, le cui pannocchie non si guardano a maturità, ma si spiccano mentre che sono in latte, e si mangiano arrostite o lessate.

È innegabile che la coltura delle vigne si sia vantaggiata per opera dei vignaiuoli.

Il vignaiuolo avvitisce le poste vuote concando e propagginando la vite prossimana, o cacciandovi magliuoli, dei quali non si fa vivaio, ma che con la cruccia si piantano a dimora nei posticci, e non adoperando mai la propagazione a barbalelle, il cui metodo è da noi sconosciuto.

Migliora le viti di mala stirpe innestandole tra due terre, e cacciando alle due estremità delle spacco due occhi, e ringiovanisce le vecchie saeppolandole, cioè tagliandole sopra il saeppolo o razzuolo, ch’è quel tralcio che vien su dal pedale della vite.

Visita spesso la vigna; ladri e bestiami non vi entrano, i pali non si rubano, e le viti sempre più di anno in anno spesseggiano; perché tra gli altri suoi patti col proprietario vi è quello di fare ciascuno a metà tante giornate di propagginatura in ogni anno. Ma è innegabile pure che dalle vigne date ai vignaiuoli non siottengono i migliori vini.

Quattro cose, dice il Calabrese, non si debbono affidarea nessuno: la moglie, la vigna, la chitarra, e la carabina. Il vignaiuolo guardando alla quantità, non alla qualità del mosto, sfianca la vigna lasciando molti capi e molti occhi, e nell’opera della vendemmia trascura la pratica di quelle cose, che conducono alla bontà dei vini, come diremo in seguito.

La vendemmia poi non solo si fa malamente, ma meschinamente. Nella vigna senza vignaiuolo il padrone va quando vuole, e quanto di uva vuole tanto coglie; e il giorno della vendemmia è una vera festa. Tranne pochi paesi, in tutti per lo più sono le donne che vengono invitate a far la vendemmia.

S’invitano le vicine, e quelle che sono trascurate se l’hanno a male; e poiché il padrone ha sempre un figliogiovanotto, questi procura di avere le ragazze più belle e più allegre; e tu le vedi sul rompere del mattino con un paniere infilato al braccio e con in capo sporte esportelle avviarsi alla vigna. Siedono per terra sullo spianato che si allarga innanzi al palmento, e finché il Sole che sorge asciuga le uve, fan colazione.

Il padrone dà a ciascuna due pani ed un tocco o diformaggio, o di lardone, o di pregiutto, o due acciughe salate; e mentr’esse mangiano allegramente ei fa raccogliere i fichi e le frutta, perché le vendemmiatricinon vi diamo addosso.

Poi si mettono all’opera: altre colgono le uve, altre le trasportano al palmento, e tutte dei grappoli che spiccano l’uno danno alla bocca, l’altro al paniere. Chi potrà dire le canzoni che cantano, i molti arguti che dicono, le spinte che danno e che ricevono?

L’allegria è cresciuta dall’altre vendemmiatrici delle vigne vicine, tra cui sorge disfida di canto, e dai giovani che vanno a quel tempo da vigna a vigna per scherzare e far gli occhi dolci, col pretesto di visitare i padroni, alle nostre popolane.

A mezzo di si sventra: siedono attorno un paiuolo dove il pane a fette è stato a lungo rimenato dentro una minestra di cavoli copiosamente oleata, e tutte insieme vi cacciano dentro le mani, e col tocco di carne fresca che ottengono par loro di essere a nozze.

Il più delle nostre vigne si vendemmiano in un giorno; e quando l’opera è terminata, la padrona dà a ciascuna quel che die alla colazione del mattino, più 25 centesimi, ed il paniere pieno di uva. E rientrano nel paese liete e festose come ne uscirono. Or tutte queste gioie non sono più laddove è il vignaiuolo.

Costui chiama le donne, costui le paga, e le segue con la coda dell’occhio perché non mangino un acino d’uva; coglie le mangerecce e da serbo, e, ad opera finita, le divide col padrone; le donne non sventrano più, le canzoni non trovano una gola che le intuoni, e la vendemmia non è più un diporto, ma un’opera malinconica.

Il prezzo elevato del mosto ha migliorato la condizione del vignaiuolo: quattro barili fanno una soma, e 88 libre di mosto fanno un barile, ed una soma che prima della crittogama si vendeva per Lire 12, 75 ora si vende per 34 e quando il vignaiuolo prende a lavorare non una vigna ma più vigne vicine, è già sicuro d’ un bel guadagno”””.

A prescindere da ciò che ne ha scritto il Padula, nei miei ricordi di bambino è rimasta l’aria di festa che la vendemmia si portava appresso e la moltitudine di buoni odori che si spargeva nel vicinato; a principiare da quello dè fìscini ì gacina, del tino per la frangitura(rigorosamente a piedi nudi) pieno di mosto e raspi, per finire col quello emanato dalla fermentazione nelle botti.

Febbraio 2025

​​​​​​​​​Minùcciu

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