Cùmu ghèramu:Aru tièmpu dè brigànti

Luigi Bisignani

Cùmu ghèramu: Aru tièmpu dè brigànti

 

 

Sulle vicende di Saverio Iannuzzi, brigante sandonatese, cc’àgnòmi “Prishènte” (à l’àti briganti ghèradi ànnumminàtu ù Zuòppu), avete avuto modo di leggere qualche tempo fa su questo giornale.

Per ricostruire i fatti tenni a riferimento, sia la tradizione orale sandonatese, sia il resoconto che sul brigante fece nel suo libro su San Donato Vincenzo Monaco, sia qualche altra notizia sulle gesta della banda capitanata da Antonio Franco, nella quale il nostro compaesano, dopo averne frequentato altre, chiuse la “carriera”.

Nella ricostruzione vi erano pero dei ”buchi” che mi hanno indotto a voler acquisire altri elementi di valutazione sulla vicenda.

Nella sua narrazione Vincenzo Monaco ci descrive un Prishènte vittima della misera, dell’ignoranza e della grettezza di taluni compaesani, i quali, dopo la condanna per omicidio lo costrinsero ai margini della società sandonatese.

Nella pubblicistica dell’epoca Prishènte, alla pari di tutti i briganti, viene mal rappresentato perché era di moda la demonizzazione del “borbonico”, partito al quale i briganti, ritenuti tutti partigiani del detronizzato Francesco II erano “iscritti d’ufficio”.

La versione “buonista” o quantomeno benevola nei confronti del Iannuzzi i miei quattro lettori l’hanno già letta.

Quella di spirito contrario l’ho tratta da vari documenti, fra i quali il giornale “il Bruzio”, fondato e diretto dal sacerdote Vincenzo Padula da Acri (CS), che sul brigantaggio pubblicò reprimende in più di una occasione.

Ad esempio, nel nr. 47 del 10 Agosto 1864 un brano titolava: “Una bell’ opera che merita un premio”,

Il corpo dell’articolo era il seguente.

“””””Il 30 luglio veniva ucciso il brigante Saverio Jannuzzi Presente.

Il Jannuzzi era nativo di S. Donato Ninea, zoppo, brutto, di abbietta figura, ma d’indole crudele, e di astutissimo ingegno.

Al 1860 si presentò al Colonnello Fumel con la speranza di aver salva la vita, e fu chiuso con altri molti nelle prigioni di Montalto. Dopo due mesi n’evase, e non già solo, ed entrò in tutte le comitive brigantesche che ci hanno molestato in questi quattro anni.

I signori Campolongo e Benincasa, Capitani della Guardia Nazionale di S. Donato, animati da amor patrio tentarono più volte di averlo nelle mani; ma al Benincasa proponeva di presentarsi con patti inaccettabili, e solo al Campolongo riusciva, per opera d’un suo mandriano, di persuaderlo a staccarsi dagli altri compagni.

Vivendo così isolato, un giorno si accozza col contadino Francesco Sirimarco e gli dice: io intendo di eseguire un sequestro, ti voglio a mia guida, e divideremo il denaro.

Il Sirimarco promette tutto, ed intanto ne tiene discorso con Francesco Pizzo.

Pizzo era fidanzato della figlia di lui, e mandriano del Capitano Campolongo. Ne parlò dunque al suo padrone, e questi afferrando l’occasione tanto tempo bramata, gli da un due colpi, e gli dice: Pizzo, tu hai bisogno d’un presente di nozze, e quel presente è nella bocca dell’arma, che ti dò. Uccidi il brigante, e sii sicuro della mia gratitudine.

Pizzo obbedisce, corre ai boschi col suocero, e, come al segnale convenuto, il brigante sbuca dal covo, gli assesta due sante palle nel petto, e lo uccide.

Non abbiamo parole sufficienti per lodare questo bel fatto; esso mostra che i Capitani delle Guardie Nazionali quando vogliono, possono; e che le nostre condizioni non sarebbero deplorabili come sono, se tutti i grandi proprietarii facessero del loro denaro ed autorità quel nobile uso che ne ha fatto l’egregio sig. Campolongo.

Possa la sua condotta servire di esempio! Interpetri della pubblica opinione noi raccomandiamo caldamente alla riconoscenza del Governo il Pizzo e il Sirimarco, e soprattutto gli autori morali del fatto, il Benincasa e il Campolongo.

Il Campolongo è uno dei nostri signori più ricchi, ed autorevoli, e sarebbe bene che venisse nominato Cavaliere di S. Maurizio e Lazzaro”””””

La versione “giornalistica”, pur nella sua brevità, risulta fantasiosa, non rispondente al vero, smaccatamente di parte, lacunosa e contraddittoria.

Non vi è certezza che Prishènte si sia “arreso” e quindi si sia presentato al Fumel, mentre è certo che nel periodo indicato dal Padula, il compaesano, non ancora brigante,  pativa la galera perché accusato, ingiustamente, del tentativo di grassazione, fato del quale veniva accusato da un massaro della piana sandonatese.

Il pezzo giornalistico mi pare troppo elogiativo verso coloro che organizzarono la trappola per uccidere il brigante, facendo apparire il suo assassinio un gesto patriottico degno di riconoscimento istituzionale.

Attesta il falso la dove scrive che il Iannuzzi avesse la necessità di “una guida” per attuare un sequestro di persona.

Prishènti conosceva benissimo ed era pratico del territorio sandonatese per avervi in lungo e largo lavorato, mentre nei territori dei paesi circostanti non aveva difficoltà avendovi vissuto da brigante.

Memoria storica sandonatese vuole che il movete principale che armò la mano di Sirimarco e Pizzo, sia stato ù trisòru ì Prishènti, sulla cui consistenza lo stesso brigante, probabilmente ad arte, aveva fatto intendere fosse favolosa.

Nel luglio 1844, i due compari, allettati da futura e sicura ricchezza progettarono ed eseguirono l’assassinio, “autorizzati e coperti”, sia dal barone Nicola Campolongo, che si San Donato fu Sindaco dal Febbraio 1847 al Luglio 1867, sia dall’allora Capitano della Guardia Nazionale Raffaele Benincasa che la tradizione tramanda quale gestore delle trattative per la resa e consegna del brigante.

Una esattezza nei resoconti giornalistici sul brigantaggio pubblicati sul ”Bruzio” c’è ed è riferita agli anni 1863/64.

Con la reiterazione della legge Pica, iniziarono a correre bruttissimi tempi per i briganti e regnava un clima di sospetto, per via di tradimenti posti in essere da singoli componenti delle bande, in questo supportati da alcuni manutengoli.

Dette circostanze convinsero più di un bandito a consegnarsi alle autorità, le quali promettevano clemenza ed in casi particolari, impunità.

Una cronaca dell’epoca, qui resa in corsivo, ci dice che “per promessa di danaro i tre briganti Marrazzo, Celestino e De Marco congiurarono contro Pietro Monaco” che difatti fu ucciso a tradimento mentre agli “sleali” fu concesso un salvacondotto” per farli vagare in trionfo pei nostri paesi: spettacolo degno dei tempi borbonici, spettacolo essenzialmente demoralizzatore del popolo affamato, e il cui scandalo fu accresciuto da alcuni, non so se sciocchi, o perversi galantuomini, che diedero loro il braccio, e li portarono in processione”, guarda caso identica accoglienza trionfale (però solo da quella parte di popolazione sandonatese di “orientamento savoiardo” o schierata “ccù pàrtìtu dò barùni”), che  ebbero il Sirimarco e Pizzo, quando scesero in paese con le spoglie ì Prishènti stièsu sùpa dùi lònghicèddhj

Nella memoria storica sandonatese non si tramanda che Prishènti si sia mai arreso alle autorità “savoiàrde e che solo alcuni acciacchi e la zoppia accentuata lo indussero a trattare col Benincasa la cessazione dello stato di brigante.

La cronaca del Bruzio ci dice che Prishènti evase dal carcere di Montalto e lo fece sicuramente assieme ad alcuni “saracinàri” ed a componenti della banda di Francesco La Valle, nella quale il nostro compaesano fece le sue prime esperienze da brigante.

Da una cronaca di Giuseppe Rizzo ho estrapolato un brano che riguarda Prishènte e dal quale veniamo a conoscere i gruppi di briganti coi quali aveva “militato”, le azioni di cui fu certamente partecipe ed il “rango” che si era conquistato nel mondo del brigantaggio calabro-lucano.

Ecco, in corsivo, il resoconto del Rizzo.

Il Molfese scrive che Francesco Lavalle faceva parte delle bande lucane, ma era di Mongrassano, vicino Cosenza.

Capeggiava una temibile banda di briganti, quasi tutti di origine italo-albanese. Si trovò a collaborare anche con le bande lucane di Antonio Franco e di Egidione Pugliese.

Dopo l’Unità d’Italia, i giovani pastori e i contadini, delusi da Garibaldi, che aveva promesso la terra usurpata dai “galantuomini”, diventano briganti.

Siamo nel settembre del 1861, Antonio Franco, di Francavilla in Sinni, raduna alcuni ex soldati borbonici sbandati e renitenti alla leva e comincia a “scorrere la campagna”, facendosi subito distinguere per le sue prime “imprese”.

Poi si unisce ad altri briganti già noti, come Alessandro Marini di Castronuovo Sant’ Andrea (un altro disagiato paesino della Lucania), Nicola Maria de Luca, alias Scaliero, di Latronico, Egidio Pugliese, Angelo Antonio Masini di Marsicovetere.

Tra questi capibanda venne a trovarsi anche il calabrese Lavalle, descritto come “un tipo basso ma tozzo, forte e anche violento”.

E’ stato accertato che nel primo periodo postunitario, in Lucania arrivavano anche i briganti calabresi. Di Francesco Lavalle si sente parlare tra l’inverno e la primavera del 1862, quando nel bosco di Cersosimo la comitiva di Franco fa il sequestro di due possidenti locali, Veneziano e Feolo”.

Il 23 agosto 1863, le bande di Antonio Franco, dell’empio Egidione e di Francesco Lavalle assalirono, nel valico di Castelluccio, i galantuomini di Senise, che tornavano dal mare.

Questo fu il colpo più clamoroso delle bande calabro-lucane. Ci furono feriti, morti e diversi sequestrati.

I briganti, per togliersi il fastidio di un loro compagno gravemente ferito, gli tagliarono la testa e la nascosero  in un cespuglio del bosco Vacquarro: così facevano, per non far riconoscere i briganti caduti negli scontri con la forza pubblica piemontese.

I signori di Senise furono rilasciati dopo una ventina di giorni ma dovettero sborsare un bel po’ di soldi.

I componenti della banda Lavalle erano 17 individui, tutti calabresi, evasi dal carcere di Montalto la sera del 28 maggio di quello stesso anno. Il Lavalle è già molto noto nel cosentino, non solo per i sequestri di persona, gli omicidi e i furti commessi in quegli anni, ma soprattutto perché è stato autore di un’altra più clamorosa evasione: quella del Bagno penale dell’isola di Santo Stefano. Nella sua banda si trovano anche i temutissimi Giovanni Bellusci, pure di Mongrassano, Bruno Pinnola, di Cavallerizzo di Cerzeto, e altri

Invece, i componenti della banda Franco sono sia lucani (Fiore Ciminelli di Francavilla, Francesco Saverio Cocchiararo di Latronico, Vito Iannelli (Scavariello) di Castelasaraceno, ecc.) che calabresi (Carlo di Napoli, Domenico di Pace, di Saracena -CS- e Angelo Maria Cucci di Spezzano Albanese.

I compagni di Egidione Pugliese sono tutti della Basilicata e spesse volte si uniscono e si confondono con quelli di Antonio Franco: i fratelli Melidoro di Valsinni e Giovanni Labanca di Terranova di Pollino.

Abbiamo una originalissima descrizione dell’incontro fra le suddette bande brigantesche, che avvenne sicuramente sotto la “Timpa” della Falconara, del Pollino; il mediatore fu Saverio Iannuzzi, alias Lo zoppo, di San Donato Ninea (CS). Anche costui è uno degli evasi dalle carceri di Montalto, insieme a Lavalle e compagni. Lo zoppo è, senz’altro, amico dei “Saracinari”: infatti, San Donato e Saracena si trovano nello stesso comprensorio”.

Non male per un sandonatese che la tradizione vuole mingherlino e succube dei “saracinari

A chiudere riporto un trafiletto pubblicato sul Bruzio nr. 9 del 30 marzo 1864 dove è descritto un episodio simile a quello narrato nella mia precedente ricerca, quel fatto in cui Prishènte non avrebbe difeso delle donne sandonatesi, sequestrate e disonorate dai suoi amici “saracinàri”:

Oltre di quelle compagnie di briganti, di cui parlammo nei numeri precedenti, una novella è in via di formazione nel territorio di Verbicaro ed Orsimarso.

Il giorno 20 nella montagna di Tavolaro quattro persone sconosciute e bene armate, una delle quali con fucile a due colpi, fermarono una mano di contadini che si conduceva al lavoro, e rapirono Maria Cerimele, e Nunziata Pisciotta, ch’erano con quelli, e dopo averle disonorate le rimandarono via a raggiungere i contadini, ai quali era stato imposto di attendere immobili ed in silenzio”.

Stàju spìculiànno ntà cèrti càrti vècchi ppì bbìdi sì nnìnni vènidi àncun’àta còsicèddha ì Prishènti.

Maggio 2019

Minùcciu

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