Racconti Sandonatesi : U nìnnu.

Luigi Bisignani & Minucciu

Anni fa mi trovavo nella bassa provincia di Grosseto per…… ma i motivi ed il perché non riguardano questo racconto e li tralasciamo.

Ero seduto al tavolo di una tipica trattoria della Maremma e stavo consultando il menù. L’occhio mi cadde sugli extra e notai che “pane, coperto e servizio” avevano un prezzo piuttosto consistente ed altrettanto caro mi sarebbe costato l’aperitivo “della casa” che avevo davanti. Piuttosto indispettito, mi venne di sibilare “à fìssa dà màmma” contro il proprietario. Feci per bere e rimasi col bicchiere a mezz’aria perché alle mie spalle una voce femminile mormorò “tì putèra rispònni quiddh’àta”.vecchia foto

Mi girai e vidi una signora anziana, seduta ad un tavolo, la quale disse, “sì ddì sàntudunàtu!”. Dovevo avere gli occhi a punto interrogativo ma la signora mi levò dall’imbarazzo dicendomi che sandonatese lo era anche lei, anche se in paese non andava più da tantissimi anni.(foto fittiva)

Attese che finissi il pranzo per prendere assieme un caffè e nel frattempo mi tempestò di domande per avere un completo aggiornamento sulle vicende paesane. Mentre conversavamo la guardai meglio e notai la somiglianza con un’altra donna sandonatese. Quando ebbi la certezza di non sbagliare, la sorpresi dicendole “cà ghèradi dà tàli ràzza e ‘ntò paìsi cìavià ‘nnà suòri”.

Mi confermò appartenenza familiare e vicende che l’avevano allontanata dal paese, circostanze che peraltro conoscevo, avendone appreso dai racconti “nnànti ù fuculàru” perché, quando tutto successe, non ero ancora nato.

La signora in questione, negli anni precedenti la seconda guerra mondiale, assieme a fratelli e sorelle conduceva vita quasi spensierata, anche se condizionata dal lavoro e dall’impegno per la cura delle proprietà di famiglia. Nell’estate del ’38, a sedici anni, si innamorò di un bellissimo giovane, ironicamente chiamato “ù nìnnu, ppìcchì ghèra ‘nnù stàntalàzzu gàvutu quàsi dùi mètri””, che aveva già in casa come operaio e bracciante. Il fisico prestante e la buona predisposizione al lavoro resero “ù nìnnu” bene accetto dalla famiglia che non pose impedimenti “à ssì fà zìti”. Visse un periodo felice fino al ‘39, quando ci fu la dichiarazione di guerra e la chiamata alle armi. Attendeva con inquietitudine le lettere dal fidanzato che, giungevano con intervalli sempre più lunghi fino a quando cessarono di arrivare del tutto, da quando il reparto del giovane venne inviato sul fronte russo.

Furono anni duri ma, la ragazza non perse mai la speranza circa il ritorno “do nìnnu”, anche se le probabilità divenivano sempre più esili e condizionate dall’assenza di notizie.

casetta01Nell’estate del 1945, mentre con altri operai giornalieri “spiculiàvadi ntà nà carmàta” appresso ai mietitori, ebbe un presentimento e sollevò la testa per guardare intorno . In lontananza e contro sole le parse di vedere una esile ombra che avanzava nella campagna. Le venne un nodo allo stomaco ma ciò non le impedì di correre incontro alla figura che a lei pareva familiare. Le parve di volare perché, in meno di un niente si appressò ad una uomo dall’aspetto patito, macilento, vestito degli stracci di quel che una volta era una uniforme. Solo l’altezza notevole gli fece riconoscere “ù nìnnu” in quel corpo consunto dal quale trasparivano i patimenti da fame e febbre.

Portatolo nella “casètta”, la ragazza ripulì al meglio “ù zìtu” e lo rifocillò con quel che c’era. Poi svolse il penoso compito di comunicargli che la madre, priva di sue notizie com’era se ne era andata per un crepacuore e quindi era restato solo al mondo. Le condizioni del giovane non consentivano il trasporto in paese e c’era anche il problema di dove sistemarlo visto che la madre aveva vissuto in affitto.

Decise che il giovane sarebbe restato presso la “casètta” ed allo scopo la ragazza approntò un giaciglio riempiendo di paglia “dùi còddhj” per farne un materasso. Decise di restare, di non lasciarlo solo, mettendosi contro i genitori ed i fratelli, che gli facevano presente se fosse cosciente che quella decisione l’avrebbe compromessa per sempre agli occhi del mondo, perché una donna onesta non avrebbe mai e poi mai passato una notte fuori casa e per di più in compagnia di un uomo.

Non volle sentire ragioni e restò col suo ragazzo, il quale, le raccontò i patimenti della campagna di Russia, il freddo, la fame, lo sbandamento della ritirata e soprattutto il continuo pericolo di essere catturato e fucilato perché il ritorno a casa l’aveva fatto quasi tutto a piedi attraverso montagne e lande desolate della Polonia e dell’Austria, con unica compagnia della fame e della paura di non farcela. L’unico pasto decente ed un ricovero caldo l’aveva goduto nelle montagne di Sant’Agata dove era stato accolto “à nù picuràru” col quale aveva condiviso un pezzo di carne arrosto e un bicchiere di vino ed ospitato a dormire su un giaciglio di paglia.

Il giovane era ridotto piuttosto male. La ragazza però sperava che, con nutrimento e cure adeguate, col tempo si sarebbe ristabilito. Lo vegliò ed accudì per tre giorni bagnandolo spesso sul corpo per via di una febbre sempre più alta che stava divorandoselo. Fece chiamare un medico che dopo la visita non le diede nessuna speranza di sopravvivenza. Mostrò alla ragazza una tumefazione, “nù cuòcciu sùtta màscula” e spiegò che era il corpo di una zecca, attaccata lì chissà da quando e che, nutrendosi di sangue, aveva infettato il malmesso giovane. Era una di quelle circostanze che non lasciavano speranza perché l’infezione era gia diffusa per tutto il corpo ed in quel tempo non vi erano cure per le infezioni di natura setticemica.

L’agonia durò poco perché, nel giro di una settimana dal suo arrivo, il ragazzo morì. La “zìta” lo pianse ed i presenti pensarono che fosse “ssùta ì càpu” perché nelle lamentazioni ne ebbe “ppì tùtti ì sànti dò pavarìsu” i quali, a parer suo, non avevano protetto il suo amore tanto sfortunato. Insultò persino il Santo Patrono, cosa inaudita per tutti i sandonatesi e persino per il più “scùstumàtu dè màsculi”, che a tanto non sarebbe mai arrivato “màncu fràcidu mmriàcu”.

Restò per qualche tempo nella casetta, “vutànnu ì spaddhj àra chièsia”, per vivere di dolore e ricordi. Non poteva ritornare a casa e subire le rampogne dei familiari che le avrebbero fatto pagare caro il disonore cagionato alla casata. Voleva anche evitare sia gli sguardi maligni dei compaesani verso una “compromessa”, sia i mormorii ed i sussurri alle spalle di “gùna pùbbrica”, come generalmente veniva definite le ragazze nella sua condizione.

A levarla presto d’impaccio giunse la proposta di matrimonio, recapitata da “nù paranìnfu”, mitico personaggio che in quei tempi combinava matrimoni. Si trattava di andare a vivere in Toscana, sposare un proprietario terriero rimasto vedovo e prendersi cura di due neonati la cui madre era deceduta per parto.

Non era più tornata in paese perché non ne aveva avuto nessuna opportunità ma, non aveva mai dimenticato il paese dove era nata. Era dei compaesani, di quei molti che “s’èranu pijàti à pizzicata” straparlando della sua vicenda, che non aveva né voleva aver più memoria.

Ottobre 2014

Minucciu

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1 commento

    • Giovanni Benincasa il 11 Ottobre 2014 alle 15 h 47 min
    • Rispondi

    Caro Minucciu sei una vera memoria storica. Questo racconto è una chicca che descrive perfettamente un lato delle nostre usanze.

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