Luigi Bisignani
MINÙCCIU BBÌ CÙNTA CÙMU GHÈRAMU: Quìri cà t’aviènu juràta.
Si cùntanu sùpa ì jìditi ì nà mànu, i sàntunatìsi c’ànu lassàtu scrìtti ì stòria paìsàna o dì cùmu ntè tièmpi antìchi sì gusavadi e custumàvadi ntà sàntudunàtu.
E si vàsi a lèggi quìri c’àncuna còsa l’ànu scrìtta, vìdisi cà viniàmu prisintàti ccù dùi manèri: s’appartinìasi àra “ggènti bbòna”, cùmu gangiulièddhi càsa-chièsia e fatìga;
quìri da “gènti cèssa”, cùmu diàvuli c’ònn’ànu nnè pàni nnè rispièttu.
Avùtu cùntu cà quìru c’ancuna còsa gà lassàtu scrìttu appartinièdi àra “ggènti bbòna”, (i pòviri, i ”cièssi” òn sapiènu ì lèggi e scrìvi), vò vìdi mò cà cùmu ghèradi veramenti ù santunatìsi antìcu onn’àma sàpi mài, ppìcchi ù vèru ghè sunàtu à nà campàna sùla?
E nonn’è tùttu cèrtu màncu quìssu.
Nfrà ì vìècchi ì quànnu ghèra nù quatràru, cc’èra ggènti chi dò paìsi ti putìa cuntà tùttu, avìas’avì sùlu a paciènzia e rà fìrmìzzi dè sta à sènti, quànnu i truvàvasi a ragiunà; astàti àru frìscu dò vicinànzu, ù vièrnu nfàcci nù tracannàli chi vrushjàvadi ntà furneddha dò fucularu.
Erano enciclopedie viventi i nostri viècchj e tramandavano storie, usi, costumi e tradizioni paesane antiche, memorie su fatti e fatterelli, che riguardavano tùtti ì ”ràzzi paìsani (inteso famiglie), sulle quali non esistevano vicende od episodi “sacrèti”.
Mi spiego meglio, il segreto a San Donato è stato ed è un mito; non è mai esistito e sì mùrmuriàvadi c’ògni pètra, ntò paìsi e cuntuòrni, pussèdidi guòcchi, rìcchj e vùcca e rì sapìa gusà.
Fatti riservati, vicende segrete, storie intime avevano vita breve e nel giro di una giornata venivano risaputi e tramandati fino a divenire di pubblico dominio e narrati cùmu parmarìj. Venivano anche usate come “arma” nelle liti di vicinato, mentre quelle più corpose e divertenti finivano come soggetto ppì ccì garmà nà pàrti ì carnivàli.
Fra i tanti depositari di storia paesana, quello che avevo occasione di frequentare spesso era zìu Pascàli, dal quale, per averle sentite e risentite, ho appreso buona parte di storie, storielle e parmarìe delle quali ho reso conto con i miei scritti.
Il racconto che ho ripescato dalla memoria della mia infanzia e del quale vi faccio parte, comincia con un rettangolino di ”lànnia”, che zìu Pascàli teneva appeso mpìzzu àra fùrnèddha e sul quale, nù furgiàru aveva punzonato la scritta “F. C. S”.
L’oggetto lo avevo sempre visto e non appena ne fui in grado lessi l’incisione, ma non chiesi alcuna spiegazione, ligio all’intimazione materna che àra càsa i l’àvuti ònt’àsa mpiccià.
Zìu Pascàli, c’ònn’èra nàtu jèri, s’èradi abbisàtu delle mie occhiate furtive alla targhetta ed’avièdi pùru ntièsu cà ghèra curiùsu e sùlu pp’àducazzjùni e pp’amminàzzi i màmma òddh’àddhummannàvu ù ppìcchi e rù ppiccùmu.
Una sera zìu Pascàli raccontava che i sàntunatìsi, antichi (e puru quiri i gòj), su sèmpi stàti ì paròla, ma puru currivuòsi, ed’àcchjancùnu ù currìvu s’à purtatù ntò tavùtu cùmu dòta ppà mòrti.
Ed indicando la targhetta raccontò che l’aveva fatta recuperare dalla croce posta sulla tomba di un suo lontano parente ì nòmi Vihjèli, che mm’ìta ghera stàtu ì ràzza tòsta e currivuòsu nsìnu a mòrti ed i cui resti, mezzo secolo dopo la sepoltura, in occasione di lavori di ammodernamento ed ampliamento del camposanto, erano stati estumulati e deposti nell’ossario comune.
Vihjèli, come usava in quei tempi, portava lo stesso nome del nonno paterno, il quale apparteneva ad una delle “ràzze” sandonatesi inserite nel ceto dà ggènti bbòna.
La famiglia ì Vihjèli ù vhiècchiu venne travolta dall’invasione del regno dei Borbone conquistato dalle bande garibaldino-savoiarde.
Ù viècchju, al contrario di quel che fece la maggior parte della borghesia sandonatese, non aveva colto l’occasione per schierarsi dalla parte “giusta”, scelta che gli era poi costata proprietà, prestigio e libertà personale; era rimasto fedele alla “casa dei Borbone, il solo ad aver agito in senso contrario al resto della sua ràzza, che per tempi si era “convertita al nuovo regime”,
Prima della invasione sabauda Vihjèli ù vhiècchiu aveva avuto qualche scontro, anche fisico, cchì ”savuiàrdi” sandunatìsi, ccù capizzùni quiri dò partìtu dè paniànchi, gruppo al quale, più volte aveva negato provviste e danaro nel corso delle frequenti “collette” che i suoi pari “convertiti”organizzavano per sostenere i volontari dei moti preunitari.
Vihjèli ù vhiècchiu non era, né si era mostrato un patriota e questo essere, dopo la conquista ed annessione del regno del sud, gli venne messo in conto e gliene venne chiesta ragione, sia dai suoi pari dà ggènti bòna, sia dagli altri rami della famiglia, che lo consideravano un disonore.
Venne incarcerato, i suoi beni confiscati ed assegnati ai rami della famiglia convertita al nuovo regime. Scontata la pena, la famiglia, per evitare chiacchiere e malignità, lo reintegrò in parte dei beni ma non resero un centesimo delle altre sostanze “confiscate dai Savoia” e che Vhjièli ù vhiècchiu sapeva benissimo che erano state parcellizzate, divise ed incamerate dalla parentela.
Pppì campà Vihjèli ù vhiècchiu, ppì nnà pìcchi ì tièmpu, nsièmi àra gènti chi piàvadi à jurnàta, g’àbbòta à canùsci pùru ù mànicu dò zàppuni. E minumàli c’à shjòrta, quanno ghera giuvinieddhu, ddh’avìa dàtu n’uòcchiu faciènnuddhi studià sciènz’agrària.
Applicando le competenze a suo tempo acquisite, i terreni non più affidati a fattori e mezzadri, ma condotti in proprio e con tecniche innovative, ebbero rese di molto superiori alla generalità degli altri proprietari e nel giro di pochi anni la situazione economica migliorò.
Quel che non migliorò affatto furono i rapporti con la vecchia classe sandonatese ora al potere, passata armi e bagagli a sostengo del regime sabaudo, verso il quale Vihjèli ù vhiècchiu mostrò sempre avversione, sentimento esteso anche verso i suoi familiari conformisti.
A sostenere l’odio di Vihjèli ù vhiècchiu non era solo il sentimento “legittimista”, ma quello di cui veniva a conoscenza, su sistemi e metodi che erano stati adottati per conquistare il regno del sud e mantenerne il possesso, dopo la reazione del 1862 e gli anni seguenti, fino al 1870.
Si mormorava di agenti provocatori infiltrati nel regno (parecchi erano carabinieri), prima della invasione di Garibaldi per fomentare sommosse, corrompere funzionari regi, diffondere malumori ed avversione verso i Borbone.
Durante l’invasione, benché in superiorità numerica, parecchi ufficiali borbonici corrotti fecero arrendere i reparti agli “scannagatti” di Garibaldi, sia per denaro, sia con la prospettiva del promesso posto nel ricostituendo esercito sabaudo.
Il plebiscito asseriva Vihjèli ù vhiècchiu, era stata una farsa; il voto di adesione non era popolare ma per censo, quindi espressa da una minoranza rappresentata da quella classe già compromessa e favorevole al nuovo regime.
Il suffragio non era stato segreto ma forzosamente espresso in modo palese e quindi controllabile; e nonostante ciò i conteggi erano stati manipolati pro savoia.
Inoltre i nuovi arrivati piemontesi, avevano incamerato riserve auree e moneta corrente, confiscato i tesori di stato, occupato tutte le cariche ed illuso i “regnicoli convertiti al nuovo regime”, ai quali avevano lasciato briciole di potere locale ed incarichi ininfluenti.
Ma quel che Vihjèli ù vhiècchiu non riusciva a perdonare ai savoiardi era l’accanimento contro la popolazione, accusata di collusione coi rivoltosi e per questo maltrattata, malmenata, derubata, vessata, carcerata, ridotta in miseria, decimata da “sabaudi” che lui chiamava “assassini” e che rispondevano al nome di Cialdini, Crema, Fanti, Fumel, Lamarmora, tanto per citare i più carogna”.
E di questo suo orientamento Vihjèli ù vhiècchiu non faceva mistero, ne parlava e sparlava di continuo, senza risparmiare contumelie al savoia ed alla famiglia, restando sordo ad ogni consiglio di moderazione e prudenza.
Il culmine della sua opposizione al regime, Vihjèli ù vhiècchiu lo raggiunse nel 10° anniversario dell’unificazione, quando i sandonatesi, come nel resto del regno, festeggiarono il primo decennio di unità e la contemporanea presa di Roma.
Vihjèli ù vhiècchiu, dal balcone della sua abitazione, con vista sulla piazza dove il corteo sarebbe transitato, espose un drappo bianco con contorno gigliato ed al centro lo stemma del regno delle due sicilie; nel bordo inferiore, grande e visibilissimo, il monogramma “F.C.S.” ricamato in rosso.
La folla capì il significato dello stemma borbonico, ma sul monogramma non riuscì ad ipotizzare nulla ed il significato rimase un mistero, circostanza che fece maggiormente infuriare i maggiorenti del paese, feriti nell’ideale patriottico.
I “savoiardi”, conoscendo il piglio deciso ed il caratteraccio di Vihjèli ù vhiècchiu e consapevoli della sua abilità come tiratore, per un po’ rumoreggiarono nei pressi dell’abitazione, ma lontani per evitare qualche fucilata; nei giorni successivi si recarono in Castrovillari e presso quella magistratura presentarono denuncia per lesa maestà ed altro.
Vihjèli ù vhiècchiu venne arrestato e processato per reati che, per il codice penale sabaudo, entrato in vigore nel 1859 ed esteso al regno del sud dopo la conquista, comportavano la pena capitale.
I maggiorenti del paese, tutti, mossero le loro conoscenze nei palazzi del potere e le fecero intervenire per alleggerire la posizione i “Dòbbièli”, questo il termine dialettale col quale correntemente il vecchio era nominato e conosciuto in paese.
Questa “solidarietà di casta” fra i maggiorenti del paese, aveva un precedente nei processi per i moti del 1848 e del 1852, quando le amicizie borboniche, in Cosenza e Napoli, consentirono di “amnistiare e perdonare” i carbonari sandonatesi fra i quali molti rappresentanti della “ràzza dà ggènti bbòna”, pàrtìtu dè paniànchi in primis.
Favorita dal mutato clima (il brigantaggio era sconfitto) e dal diverso atteggiamento del potere sabaudo, arcigno verso il popolo, ma conciliante verso nobiltà e borghesia, a ggènti bbòna sandonatese intervenne a favore i Vihjèli ù vhiècchiu il quale evitò la pena capitale e condannato a ventanni di lavori forzati.
Era un po’ troppo per un reato di opinione, ma dopo la decennale rivolta antisabauda, non tutti i veleni erano stati rimossi ed uno di questi si ritorse contro Vihjèli ù vhiècchiu, che dal carcere non uscì mai e, dopo appena tre anni di galera, morì di crepacuore.
Vihjèli nipote, aveva fatto in tempo a conoscere Vihjèli ù vhiècchiu e ne era stato contagiato da idee e fermezza.
Crebbe con l’identico carattere e sull’unità della penisola, ebbe la stessa convinzione del nonno e, come l’avo, non fece mai mistero dell’avversione alla nuova casa regnante, anche se dovette giocoforza cambiare soggetto.
Il nonno malignava su Vittorio Emanuele al quale, con malavolenza, dava del “fìgghju dò chiànchjèri” (il riferimento all’incendio della culla reale ed alla sostituzione del neonato era chiaro); il nipote denigrava Umberto definendolo “ricchjpànni” senza alcuna altra spiegazione.
Il nipote fu meno impulsivo e più furbo del nonno e non pagò mai le malefatte che metteva in atto per screditare la classe al potere.
Vihjèli , à nù furgiàru si fece fare la targhetta con la misteriosa sigla; all’artigiano che chiedeva lumi sul significato, rispose: “ppì mmò pìati i sòldi cà cchì bbò ddì ssù scrìttu, tù fàzzu sàpi dòppu chi sugnu muòrtu” ed in questa frase vi era tutto il carattere ì Vihjèli e dò nannùzzu.
Zìu Pascàli raccontò che, venuta la sua ora, Vihjèli dai familiari pretese che fosse messa in atto la beffa ideata dal nonno e che al funerale sùpa ù tavùtu avìana stènni quìra bannèra ed’àru campusàntu, quànnu ù grapiènu ppì l’urtima vòta, ddhàvìana lassa à pèzza mìsa ntè mànu a cùmmighjà rusàriu e crucifìssu.
Sùpa a crùci fàtta cchi mànici ppì purtà a mànu ù tavùtu (usava così fino agli anni 60) voleva ci fose inchiodata la targhetta col monogramma, anni dopo recuperata e custodita à zìu Pascàli.
In punto di morte Vihjèli rivelò ai familiari il segreto che si celava sotto le iniziali fatte ricamare sul drappo e poi bulinate sulla targhetta.
Glielo aveva trasmesso il nonno, facendosi promettere che ne avrebbe spiegato il significato solo in punto di morte.
Le lettere del monogramma erano le iniziali della frase con cui Vihjèlì ù viècchju, ai tempi suoi chiudeva ogni ragionamento o discorso sull’unità della penisola:
FanCulu Savoia.
Con la targhetta ed il suo (per i più) oscuro significato, la beffa continuò ancora per anni, e sinò, Dòbbièli e nipùti, cchj cùrrivuòsi gheranu stàti.
Giugno 2025 MINÙCCIU