CÙMU GHÈRAMU: Tèrri e pajsi ‘ntà Càlàbria dò gòttucièntu 

Luigi Bisignani

 CÙMU GHÈRAMU:  

 

 

Tèrri e pajsi ‘ntà Càlàbria dò gòttucièntu 

 In tre articoli pubblicati sul Bruzio del 19, 30 novembre e del 28 dicembre 1864, Vincenzo Padula riferiva sulle vicende urbanistiche di terre e villaggi calabresi, i quali, a suo parere, recavano ancora tracce di una costruzione frettolosa e disordinata realizzata nei tempi in cui, per sfuggire alle invasioni saracene, si doveva trovare riparo in luoghi di difficile accesso e costruirvi abitazioni in maniera rapida, talvolta raffazzonata e su terreni scoscesi.  

Dette circostanze non consentivano alcun rispetto per la “regola del buon costruire”, tipica nella urbanistica rurale di tradizione romana. 

Ed il nostro paese, specie nella parte “vècchja” (quel che a buon diritto è il “centro storico sandonatese”, intesi i rioni Tèrra Sànt’Antòniu, Casàli, Càpucasàli, Sàmmicuòsu, Jùjulu e Sàntuvìtu, Chiàzzanòva, Chiazzètta, Chiàzza vècchja, Crùcivìa e Sàntucristòfaru), non è  sfuggito al “disordine urbanistico” che doveva essere una costante. La stessa condizione è presente nei rioni edificati a cavallo del 1900 (Siddhàta  e dintorni, Pètracànnia), quindi circa mille anni dopo la “fuga verso le montagne” e la costruzione delle prime capanne  fra Mòtta e Palìzzi. 

Nonostante lo stato di abbandono del “paese vecchio”, in quel che non è deperito o crollato, sono presenti i tratti caratteristici dell’urbanistica “da montagna”, con le case addossate l’una all’altra, le finestre ed i balconi che guardano sul tetto del confinante più in basso e le stradine, strette e contorte, che si sviluppano negli spazi che a suo tempo, ciascuno, costruendo la propria abitazione, ha ritenuto di lasciare liberi. 

Nella disamina il buon Padula non manca di accennare al nostro essere “un popolo senza memoria”, retaggio che i montanari calabresi hanno ereditato dagli antenati osco-bruzi.  Lamenta che, delle traversie patite dai nostri antichi, non rimane traccia perché, a livello locale, pochi sono stati coloro che hanno documentato lo svolgersi degli avvenimenti lasciando documenti scritti. 

Tenendo presenze che anche San Donato è “un paese senza storia, che per ha vissuto millenni  di oblio”, detto e scritto questo da un sandonatese di importazione, al quale non mi sento di dare torto se è vero, come è vero, che la prima documentazione scritta sulle vicende sandonatesi e dell’inizio del 1900, nel corso del quale, solo due sandonatesi hanno prodotto scritti sulla storia del paese natio.  

E qui occorre sottolineare che i sandonatesi, almeno quelli che per istruzione e rango sociale potevano lasciare memorie scritte, della “regola di non lasciar testimonianze” sono stai stretti osservanti. Non impicciarsi, non lasciare tracce perché la vita andava avanti lo stesso è la regola in ossequio alla quale da secoli il “sandonatese” si pone molte domande prima di affrontare un problema: “rènnidi, cchì ccì guàdàgnu, nnì vàlidi à pèna?”. 

Un piccolo inciso; l’aver raccontato vicende sandonatesi (apprese dalla viva voce dei vecchi in forma di “parmarie”) e l’aver con questo sfiorato argomenti “sensibili”, mi ha attirato qualche antipatia e qualcuno mi ha mosso non tanto velate critiche per aver “compromesso la buona nomea paesana”. La storia in generale (e quella paesana in particolare) è uno dei miei argomenti preferiti. Va tenuto presente che per interessarsi o scrivere di storia, occorre essere libero, non si deve subire condizionamenti o pressioni, non si deve “addomesticare” i fatti pro questo o quello. Occorre precisare che il mio scrivere era tutto per il paese, “ù munzièddhu i pètri” di felice memoria, al quale sono affezionato (pur avendolo tradito emigrando? 

Dopo la disgressione personale ritorniamo al Padula, il quale non manca di riferire di racconti popolari, anche fantasiosi, alcuni dei quali rammento di averli sentiti raccontare sotto forma di “pàrmarìj”; 

“”””descritte le campagne e le marine, i campagnuoli ed i marinari, è tempo di por piede nell’abitato, e studiare le condizioni dei terrazzani.  

Se per città s’intende un aggregato di case non rustiche distribuite in vie, isole e piazze, e recinto da muri, da fossi o da altro impedimento, che non ne lasci libero o inosservato l’ingresso, è chiaro che noi non abbiamo città, tranne i quattro capo circondarii, i quali, qual più qual meno, cominciano ad averne l’aria, e che tutte l’altre terre nostre sono villaggi, e casali 

La posta, la costruttura, e l’ordine loro ricordano grandi avvenimenti, dei cui particolari l’incuria degli avi nostri non pensò a scrivere la storia.  

Parte fuggiti dal mare ed internati tra le pendici ricordano i tempi, che Goti, Vandali e l’Arabi smontando sui nostri lidi ne respingeano dentro terra i pallidi abitatori: parte costruiti alle falde d’una bicocca, sulla cui vetta il musco copre i ruderi d’un castello, sembrano tuttora starsi in ginocchio, come gli antichi vassalli che gli edificarono, ed adorare l’ombra del temuto Barone vagante tra le vecchie rovine.  

I villaggi albanesi con broli e macchie intercalate tra gli edificii rammentano l’emigrazione, quando le varie famiglie si accasavano sullo stesso suolo, ponendo un intervallo tra loro, ed il congiunto arrivato dopo diceva al congiunto venuto prima: Fa che io addossi la mia casetta alla tua.  

Nei casali silani, gli uni qui, gli altri lì sparpigliati, e a breve distanza tra loro, tu leggi il disordine, la fretta e la paura, onde i primi fondatori fuggirono dalla faccia dei Saraceni stanziati nella valle del Crati. 

Potente era il feudatario, e sottoposti ai piedi del suo turrito palagio si edificarono le casupole dei suoi servi, e di quanti forestieri lordi di sangue ne invocavano l’asilo; e questi non conoscendosi l’un l’altro edificarono ciascuno la sua casetta in isola sul suolo ottenuto dal barone, e tra l’una e l’altra catapecchia lasciarono quelle intercapedini (strittuli), che ora rendono sì deforme l’aspetto dele nostre terre.  Potenti e ricchi erano gli ordini monastici, dei quali sempre due o tre si stanziarono in ciascun luogo abitevole, scegliendo i punti più alti, più ariosi, più soleggiati; e tu ora trovi grandi ceppi di case situati attorno i Conventi, e divisi l’uno dall’altro da molto spazio, in modo che la popolazione di ciascuno sembra sciamata dal monastero, che vi sta in mezzo. 

Potente era il clero, ed in tempi che i barricelli dei Baroni e dei Vescovi insanguinando di loro risse le vie si disputavano il dritto di opprimere le genti, la libertà, grazie alle immunità ecclesiastiche, si trovava nei campanili, nei tempii, nei cimiterii, nel sacrato delle chiese alla distanza di quaranta passi.  

Il sacrato divenne dunque piazza; arteſici e commercianti vi rizzarono le loro botteghe, le meretrici i loro lupanari, e l’ombra delle mura della chiesa di Cristo. I protesse le Maddalene.  

Per tutto poi incontri le motte, edificate così in Calabria come nelle altre parti d’Italia all’undecimo secolo, quando, smottando gli ordini sociali, e cadendo l’uno sull’altro, alcuni liberi individui in quel viluppo inestricabile di uomini e di cose pensarono a tutela di sè stessi d’ordinarsi in setta, e col nome di liberi muratori sterrando e colmando un borro nei pressi d’un municipio o di un castello baronale vi sospesero i loro nidi.  

Per tutto le giudeche, fetido oscuro, e fangoso laberinto di bugigattoli respinti nelle parti più basse e nella coda dell’abitato, e dove i giudei, che ne sgombrarono a più tempo, lasciarono un terrore superstizioso.  

Per tutto gruppi di tugurii improvvisati in tempi remoti dai briganti e dagli zingani, e che poi ricevettero, ospiti nuovi, i pacifici contadini. Insomma, gli edifizii seguirono nei loro gli ordinamenti civili; le fabbriche si disposero come le persone, ed i tetti ebbero maggiore o minore altezza secondo che i loro abitanti ebbero maggiori o minori dritti. Degl’incrementi di tanti casali, e delle vicende che o spostarono le prische città, o le cangiarono in villaggi sarebbe stato desiderabile che gli avi nostri ci avessero lasciato memoria; ma al loro silenzio ha sopperito la fantasia del popolo, ch’è scosso da molte cose che passano inosservate davanti all’occhio dell’uomo culto, e le spiega a suo modo.  

Vedete, esso ti dice, quell’aggregato di vecchie case, che sembrano in distanza la facciata d’una cattedrale? È un villaggio chiamato Laregina: vi nacquero tre Vescovi, quattro generali ed un papa; Cesare Augusto vi ebbe la curia, una regina il palazzo: quelle colline sfranate non vi erano, non vi era quel fiume: bastava un giorno appena a chi volesse girarne le mura; colà tutte le ricchezze del mondo, colà le Fate venivano a danzarvi la notte.  

Ma un tratto le Fate si dispiacquero dell’ingratitudine degli abitanti, e si tolsero di capo le ghirlande, e si vestirono a bruno, ed a luna silente tornarono a ballarvi, e il terreno battuto dai loro coturni di seta si aprì in voragine, ed elleno ballarono sulla voragine 

Ballarono sulla voragine, e secondo che intrecciavano e strecciavano le mani si toglieano dalle dita le anella, e giù le buttavano in fondo, e il Sole della dimani rivide la bella città e non la riconobbe. 

Vedete, continua a dire il volgo, quelle due motte, l’una rimpetto all’altra, con sopra quei muraglioni caduti?  

Una volta, Dio sa quando, capitarono qui sette fratelli mentre il Sole andava sotto, e portavano sulle palme intrecciate una sorella, che dormiva. 

L’adagiarono senza svegliarla sotto un noce, e, guardandola con amore, si dissero l’un l’altro: Che bella sorpresa sarebbe per Marsilia se al destarsi si ritrovasse dentro un palagio! O diavolo, aiutaci. 

E il diavolo comparve con in capo un nicchio di prete, e disse loro: Sono ai vostri servigi. E di presente messosi all’opra costruì in una nottata quelle due motte con quei due palagi sopra. 

E Marsilia fu posta in un letto di piume con cortinaggi di seta; e, mentre seduti attorno attorno i sette fratelli la contemplavano, il diavolo le porto una stia di argento con dentro una gallina di oro, e sette pulcini di oro.  

E la gallina chioccio, ed i pulcini pigolarono, e Marsilia aperse gli occhi. Aperse gli occhi, e disse: Billi, billi, billi. 

E la gallina di oro ed i sette pulcini di oro sbattettero l’ali, che diedero un suono come di cento violini, e volando via dalla stia corsero dietro a Marsilia.  

I fratelli non capiano in sè dalla gioia. Siete contenti? Disse il diavolo: Or bene! E presa forma di caprone soggiunse: Adoratemi! e volgendosi alla fanciulla: E tu, Marsilia, baciani il deretano. La damigella arricciò le nari, i fratelli gli sputarono in viso, e ‘l caprone foro con le corna le mura, e rovescio i palagi.  

E ciò è tanto vero, che, per tempo ed ingegno che vi spendessero, i nostri muratori non potettero mai turare quei buchi, dove, a porvi l’occhio, si vedono precipizii senza fondo, e sulla sera vi si ode la voce di Donna Marsilia, che dice: Bille, bille, bille. Poveretta ! Quando i polli vogliono il becchime, la si sfila le perle delle smaniglie e della collana, e le versa innanzi a loro; e quando han sete, piange, e gli abbevera con le sue lacrime. 

Queste ed altre fantasie hanno in sè dell’affetto; ed in paese come la Calabria, dove l’invocazione del diavolo è continua, non è meraviglia che l’avversario di ogni bene entri personaggio importante nelle nostre tradizioni.  

Alla vista d’un villaggio, i cui estremi edifizii smottavano giornalmente, colpa un fiume sottoposto che rodeva lentamente le radici del monte, io domandava ad un villano: 

Perchè quel molino lì sulla sponda del fiume si lascia diruto a quel modo?  

E gli avviene che quel molino è maledetto, risposemi il villano. Il fiume in quel punto ha un tonfano profondo che si dice il Bolli bolli dei Giudei, perché un tempo, Dio sa quando, i giudei stanziati nella nostra terra vi furono annegati a furia di popolo.  

D’indi in poi il luogo resto maledetto, e ‘l terreno soprastante prese a sfranare. Nondimeno un uomo cocciuto volle edificarvi quel molino, e come vi pose piede non si vide più bene.  

Una sera, soletto nel molino, girava innanzi al fuoco un tocco di lardone infilzato allo spiedo, e si faceva il panunto.  

Gli ricordò di avere quel di perduto molto al gioco, e prese a snocciolare la litania dei santi, e dire: Diavolo, non ti faccio galantuomo, se non mi aiuti; lascerò lì quel Cristo legato, che non può muovere un dito a mio favore, e mi acconcerò tutto ai tuoi comandamenti. 

Ipssofatto si ruppe il tempo: acqua, grandine, vento, e tuoni. Il mugnaio resta fermo al suo focolare. Si picchia. Chi batte? Un amico. Che volete? Asilo contro il tempo. Si apre. Entra un bel galantuomo intabarrato fino al mento, e si assetta. Perché sedete discosto dal fuoco? Io sto sempre caldo. Ma pure…avvicinatevi.  

Il galantuomo si avvicina, mantiene i piedi nascosti dal lungo mantello, e sotto la soglia del focolare. Levate i piedi, dice il mugnaio, e scaldatevi meglio. L’altro nicchia, poi cede; leva i piedi, e mostra due piedi tondi di asino. Ah! sei tu dunque, brutta bestia, grida il Mugnaio, e gli dà sul mostaccio del lardone infilzato e rovente. Quegli sull’istante si fa tutto asino; allunga le orecchie, le percuote contro il palco, e ‘l molino si sfascia. 

La bizzarria, onde sono architettate queste novelle è la migliore prova della bizzarria onde sono architettate le nostre dimore. Noi pigliamo a ritrarle, e vedremo come la loro posta e costruttura possa sulle nostre condizioni economiche e morali.  

Le nostre terre e villaggi hanno poche e tante case impalazzate quante le famiglie dei galantuomini: tutte l’altre son rustiche, in isola, d’una sola stanza e d’un solo piano le più.  

Appartengono ai massari, ai contadini, ai pastori, a tutte le persone insomma, delle quali abbiamo finora tenuto parola, ed agli artigiani ed a quanti non lavorano in campagna, e che daranno in seguito materia alle nostre osservazioni.  

Son divise da intercapedini e chiassi, e salvo poche che hanno tetto a capanna, e le case civili le quali sono a quattro acque, mostrano tutte una sola pendenza. Quei tetti ineguali, quelle mura che non cordeggiano, quei vani che non hanno riscontro, e le vie che si rompono ad ogni passo, ed ora scendono, ora montano, ora precipitano fan credere che i nostri villaggi fossero stati un tempo costruiti dal tremuoto.  

Unire più case in forma di palagio non si può : appartengono a distinti padroni, e chi ne possiede una è impedito di ampliarla dalla strettezza delle vie, e dall’intolleranza feroce dei vicini di sollevarla.  

Nei villaggi giogosi era ragionevole che le platee dei nuovi edifizii si spianassero sopra linee concentriche al vertice del monte, da porgere allo spettatore più ordini successivi e digradanti di case, e tra l’uno e l’altro strade larghe e pianigiane al pedone. 

Ma già dicemmo quali fossero i fondatori dei nostri luoghi accasati, e chiamarli in colpa per difetto di questo sarebbe ingiustizia. Le facce delle fabbriche si alzarono sopra linee verticali, e, cio ch’è peggio, a muro tra loro nei fianchi, tagliando il passaggio orizzontale alla gente, all’aria, alla luce, e lasciando, tra due lunghe file di bugigattoli, viottoli estremamente ripidi.  

Di qui ai popolani renduto impossibile l’uso dei carri, e quello delle carrozze ai signori.  

Ad addolcire la difficile montata scarso compenso sono i cordoni di pietre: quei viottoli hanno melma, hanno pozze, hanno sdruccioli pericolosi, dove, punto che non vai sull’avviso, ti si smuccia il piede malamente.  

Di verno poi, nelle piogge, e nei subiti risolvimenti della neve il pericolo è maggiore. Le gronde non hanno docce; le docce non mettono in cannoni sotterranei; mancano gli scarichi pubblici; il cavaticcio, quando altri edifica, si ammonta sugli orli delle fosse o si disperde li presso: ora i tetti piovono tutti da una banda, e però quei vicoli correnti tra doppia fila di case ricevono tanta forza di acqua, che se ne forma un rigagnolo. Quel rigagnolo (lavina ) torbido di tutti gli sterri e sozzure dell’abitato travolge cani, annega porci, affoga spesso qualche mal guardato fanciullo, e, finchè la sua furia non dia giù, la gente o si arresta sugli usci, o gli pon su a traverso una palancola per passare oltre. 

Sulle case fabbricate in pendio la necessità, per toglierle all’umido, di sollevarle oltre il livello del suolo posteriore, vi ha costruito il secondo piano. Vi si monta per una scala, che aggetta fuori la linea della facciata, e fa capo o in un verone, o in una terrazza scoperta (rignanu)  

L’inquilino ha polli? Fa nel sottoscala il pollaio: ha porci? Fa nel sottoscala il castro (catojiellu); e questa comodità ha spinto a moltiplicare cosiffatte scale murate restringendo e mozzando le vie, già anguste a bastanza per sè medesime.  

I terreni diconsi terrani e caloia: sono umidi, bassi, auggiati; hanno porte quadre a soglia liscia il più, hanno nelle porte uno sportello onde ricevono il lume, hanno finestra o finta, o piccola e cancellata; mancano dentro d’impiantito, di soppalco e di cammino, e servono ad uso di abitazione, di paglieri, di stalle, di porcili, di forni, e, quando sono sulla piazza, di botteghe  

E la vista delle povere famiglie popolane stivate coi figliuoli, e coi porcelli nell’oscurità e nella mofetta di quelle catapecchie, dove il Sole non entra per non lordarsi, dove, piovendo, l’acqua della via irrompe passando la soglia, e il fumo, non trovando sfogo, costringe gli abitatori a muoversi carpone, è qualche cosa che stringe il cuore assai dolorosamente. 

Le stanze dei secondi piani sono migliori. Le finestre hanno uno sporto formato per un’asse sostenuta da due mensole, e dove si tengono i testi della ruta, del garofalo e del petrosello: lo spazzo (astracu) fatto di creta battuta ed assodata è ronchioso, ineguale, ammattonato raramente; vi è il cammino, vi è il soffitto, vi è una scala a piuoli che vi ti conduce.  

Stante l’industria serica comune alle nostre donne, il soffitto è la parte più indispensabile; privi che sono di soppalco, dove possano scovarsi i bachi, i terreni ed i mezzanini restano o spigionati o si allocano a tenue prezzo, e questo ci dà la ragione perchè i terzi piani si costruissero in pochi.  

In tutte queste case e villaggi, che descriviamo, parmi soverchio il ricordare siccome manchi il privato, il bottino, le fogne pubbliche, e che tra gli arnesi casalinghi si desideri l’orinale.  

La Calabria non ha ancora abitudini di nettezza, e possiede la singolare gloria di aver dimostrato che il necessario sia appunto ciò che vi abbia al mondo di meno necessario. 

La scoviglia (munnizza ) e le risciacquature si versano d’usci e finestre sul capo ai passanti.  

Beato chi ha finestra che dia in una intercapedine! Versa quivi gli escrementi, o vi costruisce uno sporto, sulla cui estremità l’uomo e la donna si campano in aria a fare le occorrenze.  

Beato chi abita sopra un cavalcavia! Sconficca dal solaio una piana (stàngola ), e per quel pertugio fa ciò che i lettori intendono.  

Agli altri tutti, volendo fare un pò di corpo, non rimane che uscire sulla via , la sera quando vanno a letto, e la mattina quando se ne tolgono. 

I comodi nondimeno ed i disagi accennali di sopra non s’incontrano in tutti i luoghi, la cui condizione migliora o peggiora all’avvenante del più o meno degli abitanti, e della distanza in cui sono dalle pianure e dalla strada postale.  

Questa ne tocca pochi, e la ferrovia, quando si conduca nella nostra provincia ne toccherà pochissimi: il più dei paesi sono accasati sopra monti, coronati da greppi pieni di ginestreti, cinti da borri e catrafossi creduti dalla fantasia popolare alberghi di spettri e di sortiere, e bagnati alle falde da uno o due torrenti.  

Nell’uscirne si ha la china, nell’entrarvi si ha l’erta: unirli con traverse alla postale è un negoziaccio pieno di difficoltà e di spese: le difficoltà stanno nel vincere le pettate che si succedono le une all’altre nei pressi dell’abitato, le spese stanno nel cavalcare con ponti i torrenti rovinosi, che li circondano.  

Di quì mille malagevolezze al commercio, il trasporto delle derrate affidato agli asini, ai muli, alle spalle degli uomini, al capo delle donne, e di verno un villaggio fatto straniero al più vicino.  

E della cattiva posta dei comuni peggior male ne tocca all’agricoltura: i braccianti, ed i contadini amano la sera ritirarsi nella terra a far compagnia alle mogli, e però i terreni vicini, in piano ed in pendio si mettono a coltura, quelli in monte, perché invii e lontani, si trascurano.  

Nelle campagne basse gli agricoltori per ricondursi la sera al villaggio hanno da fare lunghe montate, e ferendo dopo ogni passo in diversa complessione d’aria muoiono all’esta di terzane, di punte all’inverno; e la popolazione o rimane invariabile, o decresce ad ogni anno, e le campagne si lasciano ai grilli ed alle scope.  

I più infelici sono i villaggi albanesi, ed i silani: in questi più che altrove non trovi nulla che faccia bella la vita; non beccheria, non botteghe, non piazza, tranne una stamberga, dove si vende sale e tabacco.  

Basti il dire che non trovi un capo di refe, un ago , un fiammifero, se non te ne accomoda la vicina.  

Le poche famiglie agiate si provvedono il loro bisogno nel Capo-circondario, o in altre terre grosse dove mandano nei dì festivi il servitore, e se tu non hai in casa, hai da picchiare l’uscio altrui.  

Privi che sono di terreni comunali gli abitanti emigrano d’inverno, e di quella stagione ogni villaggio è piazza franca; v’incontri qualche prete, qualche galantuomo, qualche vecchia che fila al Sole, e capannelli di ragazzi che fanno alle bucoline.  

Più villaggi formano un Mandamento; e quindi tranne uno, mancano gli altri di giudici e guardie di pubblica sicurezza, e stante l’essere le case divise da orti, da vigne, da pometi non n’è senza pericolo il soggiorno.  

Aprite quella finestra, dicevamo una sera di luglio all’ospite nostro; e quegli di presente spegnendo la candela posata sul tavolino contentava il nostro desiderio.  

Oh! e perchè al buio? Perché, ci rispondeva colui, quì col tramonto del Sole s’incatenacciano le porte, s’inchiavistellano le finestre ed io ho spento la candela per evitare qualche lampo di siepe, ed è lampo di siepe alcun colpo di moschetto che altri può tirarci appiattito dietro la siepe di quegli orti laggiù.  

Una canzone popolare esprime il lamento d’una donzella che nata in alcuno dei nostri paesi migliori, fu mandata moglie ad un uomo dei Casali. 

Mamma m’avia crisciuta signurella! 

Mi è buta a maritari alli Casali! 

Ssì trizzi n’ho portati zagarelli! 

Mò sù ligati cu strazzi e sinali. 

Ssì piedi n’ho portatu papuscelli! 

Mo su ridutti pedi d’animali. 

Ssa vucca nnha mangiatu così belli! 

Mo si è ridutta cu pani e cu sali. 

Da questa schietta pittura di nostre terre e villaggi ognun vede che il loro miglioramento quanto a strade e sicurezza pubblica vuol essere opera troppo lunga e difficile ; ma la è agevole a bastanea per quel che concerne le interne condizioni, solo che gli animi divengano gentili.  

E sono animi gentili quelli che mettono il bello innanzi allo utile, o l’uno non staccano mai dall’altro, ed odiano la bruttezza come un delitto. Questi animi gentili sono ancora assai rari.  

Le case, dicemmo, respinsero finora ogni immegliamento, come quelle che appartenevano ciascuna ad un padrone diverso.  

Ma ora il popolo minuto, qual per bisogno, e quale per collocare le figlie, ha venduto ai proprietari i suoi affumicati tugurii, e sarebbe desiderabile che costoro, ligii all’idolatria del bello ed all’amore del loco natio, riformassero quei meschini bugigattoli, facendone case impalazzate, simmetriche, con in mezzo logge, strade, e piazze.  

Sarebbe desiderabile che i Sindaci obbligassero le case ad imbiancarsi le mura almeno una volta l’anno, e gli abitanti a lavarsi la faccia, almeno una volta la settimana. Sarebbe desiderabile che ogni municipio ordinasse una Commissione edilizia, che sorvegliasse le nuove fabbriche, perché non guastino nè l’ordine dell’altre, nè le strade intermedie e servissero a bellezza. 

Sarebbe finalmente desiderabile che ogni cittadino dicesse in suo cuore: Il mio paese è un grand’edilizio, di cui ciascuna casa è una stanza: cerchiamo a farlo bello.  

Ma egli non segue cosi; il proprietario studia a far profitto d’ogni buco, e crescere il numero dei suoi pigionanti: e se edifica una nuova casa, la costruisce senza tutte quelle comodità, che potrebbero a poco a poco dare al nostro popolo abitudini di nettezza; e ad ogni ristauro che intraprende, l’istinto alla rapina può tanto in lui che non si chiama contento se non occupa un palmo o due della pubblica strada. 

Non sappiamo quando l’amore al bello prenderà ad invaderci l’animo; ma egli è innegabile che solo quando un proprietario si vedrà ad abbattere un muro di sua casa per farla regolare, e demolire le catapecchie che la circondano per dare maggiore larghezza alla via , maggiore aria ai suoi polmoni, e luce maggiore ai suoi occhi, potrà dirsi che il tempo della civiltà sia cominciato tra noi. 

Per ora un proverbio volgare A ſravica è mmidiusa mostra che non solo non si fa, ma che s’invidi e si creano mille ostacoli ed imbarazzi a colui che intenda di edificare ed abbellire il paese. 

Il Padula ha descritto una realtà che i nati sandonatesi di una ottantina di anni fa, hanno conosciuto e vissuto: Con molta presunzione penso di appartenere all’ultima generazione  “ dè quatrari” che  a scuola hanno avuto un compagno che per dimora aveva nà “barràcca” o nù “pagghjaru”.  

Ho memoria  di tuguri di una sola stanza col fuoco acceso in un angolo senza camino e di tetti a vista privi del tavolato della soffitta;  rammento case che come deposito d’acqua avevano “ù varliri” che ogni giorno occorreva riempire alla fonte pubblica. Durante i temporali ho assistito alla trasformazione delle vie sandonatesi in torrenti vorticosi  e nulla dei disagi descritti negli articoli del “Bruzio” mi era sconosciuto. Padula negli scritti parlava degli abitati della Calabria; io vi ho visto il mio paese, nessun particolare, nessuna storia, nessun racconto mi è rimasto estraneo perché il paese dove sono nato è antico ed orografia e tipizzazione urbanistica sono rimaste ancorate a quei tempi.  I primi abituri nella zona della Motta risalgono alla fine del 900 d.C., ma  gli “antichi sandonatesi”  sono lì fra i monti e le colline circostanti l’abitato, da circa tremila anni.  

Non è del tutto vero che i “pàisàni” hanno fondato il paese li dove è ora; alla Motta e dintorni, sin dai tempi delle popolazioni di lingua osca, gli antichi sandonatesi lì ci sono sempre stati.  

Nel 900 d.C. hanno solo dovuto stringersi un po’ per accogliere “compaesani” che la paura, dalle pianure aveva spinto verso luoghi più sicuri. 

Luglio 2023 

MINÙCCIU 

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