Cùmu ghèramu: Màgàra e màgarìj, àbitìni, maluòcchju, affàscinu e jèttatùra.

Luigi Bisignani

 

Minùcciu bbì cùnta cùmu ghèramu: Màgàra e màgarìj, àbitìni, maluòcchju, affàscinu e jèttatùra.

L’argomento prende in considerazione le persone che, nelle credenze usi, costumi e tradizioni delle popolazioni meridionali, avevano “poteri”, conoscenze del mondo occulto, capacità di far guarire o di far ammalare, di causare danni o elargire benefici, quindi persone in grado di praticare “à màgarìa

Ntè tèrri ì sàntudunàtu ghèra màgàra colei che conosceva i segreti delle erbe, che aveva cognizione di sortilegi e iettature e sàpìa mànnà è càccia  fàtturi, àffàscini, malij e ghèra puru càpàci i cùnzà ì màlatìj.

Leggenda e tradizione del sud Italia voleva che le màgàre uscissero di notte assumendo forma di uccello (ppì sàntunatìsi cùccuvèddha, chjàttiddhèra, cuòrivu) per riunirsi e raccogliere quanto necessario per praticare i sortilegi.

Durante il loro peregrinare, per divertimento potevano trasformare in lupi guòmmini c’àvìanu a sbìntùra dè scuntà, salvo riportarli poi allo “stato normale” pungendoli con una canna appuntita usata per privarli di un po’ di sangue

Tradizione vuole che le màgàre dei tempi antichi accendessero dei falò propiziatori, riconducibili al rito pagano dei grandi fuochi in occasione delle Palilie, feste dedicate alla divinità romana Pale, protettrice di allevatori e bestiame. Sull’argomento, putèranu parlà, ì palìzzi nnavèranu sàpi ancùna còsa e  nna putèranu cuntà.

Altri fuochi pare le màgàre li accendessero per la ricorrenza di santa Lucia allo scopo di propiziarsene i favori e così praticare i riti di guarigione per le malattie agli occhi.

Si tramanda che generalmente le màgàre sandonatesi praticavano quel che viene definita “magia bianca”, non erano aduse ai riti “venèfici” e va tenuto conto che  àffàscini, fàttùri e malìj sì putiènu mànnà, mà pùru caccià.

Alcune magare anziane (ì cchjù màlamènti) eseguivano anche à màgària nìvura e pràticàvanu cchj lùmìri (i Lemures romani) che secondo leggenda altro non erano che ombre di defunti che si aggiravano attorno a sepolcri e luoghi addhùvi àcchjàncùnu àvìa fàttu nà màlàmòrti ed avevano potere di assumere fattezze, sembianze, aspetti e forme diverse, ad esempio quelle di persone defunte, di serpenti, lucertole, topi (il corpo dei ratti pare ospiti anime dannate) e farfalle (che ospitano anime del purgatorio)

Alla màgàra si ricorreva quando lo spirito di un defunto (parente o conoscente) appariva in sogno e comunicava qualcosa della quale non si comprendeva appieno il significato.

Alla spiegazione dei significati del sogno à màgàra spesso associava il consiglio di visitare la tomba del defunto o di far dire una messa a suffragio, oppure cucinare una pietanza, che il morto gradiva quando era in vita e distribuirla fra la parentela.

Ed a proposito di morti, la màgàra in tempi antichi aveva un ruolo anche in quel che era il “pianto rituale”, una consuetudine aggiuntiva alla manifestazione di dolore di parenti ed amici.

Nella Calabria antica a “piangere” venivano chiamate le prefiche, donne pagate per dolersi e magnificare le doti del defunto restando sedute sul pavimento attorno al catafalco.

Nel sandonatese non si aveva memoria di questo ruolo prezzolato. U’ muòrtu vinìa chjàntu dè fìmmini dà pàrintèra chì sì ciàrmàvanu a fàcci, si minàvanu e si scippavanu i capìddhj.

Detto rito era praticato solo di giorno perché si credeva che il diavolo, con l’oscurità appariva per godere al pianto delle anime buone.

Il pianto notturno inoltre aveva il potere di allontanare gli angeli dall’anima del defunto, specie se il morto era un fanciullo.

In quell’epoca, ù muòrtu màsculu, àvìadd’àvì àri pièdi vùtàti àra pòrta, sènza scàrpi mà cchì sùli càvuziètti, mèntri à mòrta fìmmina avìaddhà pùrtà à vèsta ma sènza lìghàgghj.

Ari muòrti (màsculi e fìmmini) ‘ntò tàvùtu  ddh’àvìana mìnti àncùnu sòldu ppì ssì pàgà ù viàggiu. Detta usanza era mutuata dall’uso dei greci antichi di porre sotto la lingua l’obolo da consegnare al dio Caronte per la traversata.

Le màgàre erano in amicizia con la luna, della quale, secondo tradizione, pare fossero in grado di controllare il ruolo e gli influssi che il corpo celeste aveva nella vita dell’essere umano (credenza voleva che la luna era in grado di determinare il sesso nei nascituri).

Di contro le màgàre pare non fossero amiche del sole nascente, al quale invece i contadini calabresi attribuivano virtù curative e magiche ed all’astro rivolgevano carmi e scongiuri, nei quali si avvertivano avanzi d’antichi riti pagani e forse rimanenze del saluto al sole, che i pitagorici vestiti di bianco, all’alba appaiavano agli inni per il dio Apollo.

Avevano attrazione per il fuoco le nostre màgàre, forse un richiamo al culto di Vesta, dea del focolare e della casa. Gli antichi consideravano il fuoco un dono dal regno dei morti, ma anche simbolo di prosperità e di vita, tanto che, in tutte le case delle nostre zone, un tizzone rimaneva perennemente acceso nel focolare e poteva essere spento solo in caso di morte di un componente la famiglia.

Le màgàre praticavano la medicina popolare e l’arte della màmmana, con assisteva alle partorienti; al bisogno “liberavano” l’utero, applicando intrugli di erbe tossiche, generalmente pìtrusìnu sàlivàggiu (cicuta) od utilizzando il pericoloso ferro da calza. Per antica tradizione il 24 giugno, giorno di S. Giovanni, raccoglievano le erbe medicinali che, solo in detta giornata acquisivano virtù miracolose.

C’era anche una versione “maschile” della màgaria ed era ù mièdicu sàntu, un praticone che spacciava sciroppi ed unguenti ed al bisogno praticava massaggi per guarire slogature od altrui traumi.

Fra i maghi erano annoverati ì cìravulàri, detti anche sàmpàvulàri, persone capaci di domare i serpenti e guarire chi ne veniva morsicato. Secondo credenza popolare i sàmpàvulàri erano ritenuti immuni al morso dei serpenti e la loro sapienza li facilitava nell’individuare alcune particolari erbe medicinali. Erano ritenuti capaci di guarire alcune gravi malattie con la pratica “dà mìssa ì sàmpàvulu”, rito praticato da tre cìravulàri accovacciati ed intenti a recitare misteriose orazioni, accompagnate da gesti e smorfie che talvolta li facevano apparire invasati.

Non per nulla il colubro (ù sàjttùni ) simbolo di Esculapio, era patrono di coloro che praticano arti connesse alla medicina.

Fra le “medicine popolari”, la tradizione calabrese annoverava anche l’amuleto (“àbbitìnu”), simulacro dalle molteplici funzioni, per la preparazione del quale ci si rivolgeva à nnà màgàra data la natura magica dell’oggetto.

Sin dai tempi antichi, fra i sandonatesi, maleficio e malattia si equivalevano; il primo si riteneva causa ed origine della seconda ed ammalarsi significava non godere della protezione degli dei, perché lo stato di malattia impediva il lavoro e quindi arrecava miseria.

Senza adeguata protezione, che solo la magia poteva fornire e garantire, senza n’àbitìnu, lo stato delle cose poteva solo peggiorare e si precipitava nella miseria, divenendo per questo sbìnturàti sènza shjòrta e sènza stìddha.  Di conseguenza lo stato di indigenza suscitava sospetto perché ù sbìnturàtu pòrta mmìdia, e rà  fàmi fà bbinì l’uòcchiu màlignu  chì jèttadi.

Se ne trae che nei tempi antichi (e non solo) la malattia era uno stato di disgrazia e senza adeguate contromisure si poteva solo peggiorare.

Questi i motivi di fondo per cui ci si rivolgeva alla magia, i cui praticoni potevano adottare e porre in essere adeguate contromisure, non solo attraverso riti specifici, ma ricorrendo anche ad amuleti che ne garantivano e perpetuavano i benefici, il che legava chi veniva colpito da malanno o disgrazia a chi aveva il potere magico, maghi e magare appunto.

E di amuleti, l’uso e la tradizione sandonatese è ricca.

Gli amuleti, dal latino «amoliri», sono piccoli oggetti che il superstizioso porta addosso a salvaguardia dei malefici.

Secondo una vulgata calabrese, la parola jettatura, dal latino jacio, gettare,indica un complesso di calamità che emanano dall’occhio malefico o maligno e non di rado è confusa col malocchio.

Lo jettatore, per tradizione, ha sopracciglia folte e cucite, aspetto allampanato, abbattuto dalla miseria e per questo disposto al maleficio. Fòra maluòcchiu è lo scongiuro pronunciato al palesarsi di tali persone, formula che, in altri contesti, ha anche funzione beneaugurante ed anti-malocchio.

Il malocchio è volontario ed è dovuto allo sguardo maligno; l’affascino, è involontario, potendo provenire da persona amica o da una lode pronunziata in buonafede, senza maligna intenzione, tant’è vero che possono vicendevolmente affascinarsi persone di una stessa famiglia.

È credenza comune che l’affascino colpisca i ragazzi,  esposti più  degli altri ai nefasti effetti, sia del fascino del bene, sia del fascino del male. Una persona cara, perfino la stessa madre, àduggjà, motivo per cui, in alcune zone della Calabria, un neonato si mostrava malvolentieri e nel caso di visita, tradizione voleva che, nel  metter piede nella camera di una puerpera, si doveva sputare tre volte, gesto  apotropaico con radici nella antica sentenza latina: Terna despuere  deprecatione in omni medicina est.

Si tramanda che gli amuleti servano per prevenire, sviare o neutralizzare le influenze del malocchio; allo scopo venivano e vengono usati vari oggetti quali, il gobbetto, il pesce, il cane, il lupo, la luna crescente, il numero 13,  il ferro di cavallo, il corno, la mano con le dita a mostrar corna o fiche.

In alcune zone del meridione usava che le madri, allontanandosi da dove riposava il loro piccolo, solevano coprire il corpicino ccù nnù crìvu o mettere vicino alla culla una scopa o porre sotto il guanciale un oggetto di metallo. Tale agire perché convinte  che nné monacièddhj nnè fàti (ù fièrru ddhj và cùntra) putiènu àdùgghjà à criatùra, ppìcchì,  prìmu ì fa nà malìa, àvìana cuntà i fìli da scùpa e ri grùpi do crìvu.

Alcuni amuleti erano considerati sacri e si rammentano tali, il sacchetto contenete varie sostanze fra cui foglie di olivo benedetto o della palma di Pasqua, l’incenso, il sale benedetto. Altri erano di natura profana, quali la muta del serpente o nà sàvùrra còta dopp’àvèmmarìa ntà nà crùcivìa.

Proteggere a casa dalle cattive influenze dè mònacièddhj, creatura piccola, spesso cattiva, indiscreta, amorevole sebbene capricciosa e scherzosa, per il meridionale era e resta prioritario. Per le sue stranezze ù monàcièddhu ha similitudini col demone della casa greca e col lare di quella latina.

Vi erano vari mezzi di protezione per evitare le molestie dò monàcièddhu. È uso antico dare agli inquilini di una nuova casa una sedia con i sostegni posteriori legati a simulare le corna; sull’arco della porta di ingresso si applicavano  delle maschere scolpite in pietra o plasmate in creta; nel tempo dette maschere sono satte sostituite con altri simulacri: Il pastore ha adottato cranio e corna dell’ariete, l’agricoltore le corna del proprio bue ed il mugnaio il cranio dell’asino che in vita lo servì trasportando farina.

Contro la jettatura l’amuleto più usato era ed è il ferro dell’asino o del cavallo (solo quello trovato per caso), inchiodato al muro di casa o all’architrave della porta; à cùccuvèddha inchiodata con le ali distese sull’uscio, si credeva tenesse lontane dalla dimora le avversità; muràtu sùpa ì ciràmìli, nù bucàli o nù fiàscu o tutti dui nsièmi, proteggevano la dimora dai cattivi influssi; l’amuleto più efficace era à chjànta do maluòcchju, un arbusto dalle foglie aguzze, il cui avvizzire preannunziava disgrazie nella casa; della ruta si diceva che sètti màli stùta.

Contro i temporali si credeva fossero efficaci alcune sostanze benedette, quali, un mozzicone d’una candela accesa al Santo Sepolcro, un tizzone del ceppo di Natale o del Sabato Santo.

In alcune zone del cosentino era diffuso un amuleto dipinto sulle pareti delle case, inciso su mobili o sugli utensili; era l’otto e il nove, simboli  di oscenità pagana che, contro il  fascinum, esibiva il fallo con tutto lo scroto, da cui l’otto in sostituzione dei testicoli ed il nove in sostituzione del pene.

Numerosi gli amuleti per gli animali domestici, continuamente minacciati da esseri diabolici. Anche per essi la protezione talvolta era preceduta da rituali suffumigi d’incenso e palma benedetta ed accompagnata dalla recita di opportuni scongiuri. Si credeva che gli animali fossero dotati di chiaroveggenza; specialmente, i buoi e gli asini, i quali potevano essere spaventati da spiriti maligni; da qui necessità di tutelarli, di custodirli nelle stalle, attaccando alle pareti immagini sacre, croci di legno o di canne, rami di palma o di oliva benedetti. Buoi, giovenchi, cavalli e asini venivano protetti adorni di nastri rossi e neri penzolanti ai lati delle orecchie;  i maiali portavano al collo fettucce nere quando non  avevano addosso medaglie di santi protettori o «abitini»; i mulattieri, contro il malocchio, sospendevano sonagli e trecce di lana colorata alla sonagliera delle loro cavalcature; gli agricoltori nel timore che le piante  non portassero a maturazione i frutti, spargevano nel terreno qualche ramo benedetto di olivo o di palma (àrràma sànta) e quando le campane annunziavano la resurrezione di Cristo, correvano di solco in solco, ad abbracciare gli alberi senza frutti, contrassegnandoli con una fettuccia nera; contro la jettatura era uso porre sopra gli alberi qualche sasso, ciò per il principio della somiglianza magica in quanto, caricando l’albero di pietre verrà carico di frutti.

À magària ed il mondo della superstizione e degli amuleti, nel meridione e separatamente nella Calabria, è complesso e non è facile né agevole risalirne alle origini. Sull’argomento  è difficile fare distinzioni nette, questo per il sovrapporsi di popoli e civiltà, che hanno mescolato i loro usi, le loro credenze, le loro religioni e le loro tradizioni con quelle delle popolazioni locali.

Anche gli studiosi della materia hanno avuto difficoltà a sviscerare l’argomento nonostante che alcuni di essi mettessero a profitto l’etnografia, madre delle tradizioni popolari.

Si può rilevare che tanti amuleti hanno radici antichissime perdute nella storia dell’uomo e che vari nostrano tuttora carattere pagano, nonostante che nuovi culti li avessero riplasmati per  adattarli alle odierne esigenze.

La storia della magia e degli amuleti è complicata e per ricostruirla, non bastano paralleli fra epoche storiche. Bisognerebbe rifare cerimonie e pratiche rituali riferite ai singoli amuleti, i quali hanno seguito la storia dell’uomo, le sue credenze, i suoi usi, i suoi culti, abolendone nel tempo alcuni, e adottandone altri.

A chiusura segnalo che secondo alcuni ricercatori gli amuleti sono più diffusi nel mezzogiorno d’Italia che  nelle altre regioni settentrionali; il concetto risale al 1896 e successivamente è stato dotato di una base numerica, che ha attribuito il 5% alle provincie settentrionali, il 20% alle provincie centrali e il 75% a quelle del mezzogiorno.

Febbraio 2023

Minùcciu

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