Cùmu ghèramu: ‘U màssàru.

Luigi Bisignani

 

 

Cùmu ghèramu: ‘U màssàru.

La descrizione che il Padula ci fa del massaro ottocentesco, non risponde appieno a quella del massaro nelle terre sandonatesi, almeno quelli nei miei ricordi di adolescente degli anni 50, epoca in cui tale professione stava scomparendo perché vi si dedicavano poche persone.

Da noi “ù massàru” era un possidente che curava il patrimonio familiare, ma poteva anche essere un affittuario di beni altrui od anche un fiduciario che ne organizzava lo sfruttamento e ne curava le rese. In questo ultimo caso era definito “fattùru”.

L’attività del massaro, per quel che rammento, negli anni 50 non era esclusivamente agricola ma poteva includere anche l’allevamento ed in caso di patrimoni di particolare consistenza, comprendeva entrambe le attività

Fra coloro che nel nostro paese avevano titolo ì màssàru o che praticavano tale attività, rammento:

-zìu ‘Ntrìju ì Dùmèrcia, proprietario con terre nella zona dò Cùmmièntu e che, oltre l’agricoltura, praticava l’allevamento. Sulle sue proprietà aveva impiantato un mulino ad acqua ed una càrcàra per la produzione di calce e laterizi, attività queste due ultime che aveva affidato alla conduzione di terzi;

-ziu Gràvìnu che, oltre l’agricoltura, praticava l’allevamento di ovini e di bovini allo stato brado sui terreni montani;

-quìri ì Rusànna, famiglia che rammento composta da due rami, discendenti da due fratelli, le cui attività erano diversificate perché uno praticava agricoltura e pastorizia mentre l’altro allevamento e commercio (vi è ancora memoria dà chjànca i rusànna àra chjàzza vècchia)

-Dunàtu i Bènincàsa era proprietario di terre in contrada Arcumànu sulle quali praticava attività agricola ed allevamento

-Francìscu ì pipàzzu, la cui attività era prettamente agricola (fu il primo fra i sandonatesi ad avere acquistato un trattore, condotto da figlio Severino e che veniva impiegato per lavori in proprio ed anche per conto terzi).

-fra i massari rammento anche una donna che aveva casa àru sàmmicuòsu e che conoscevo come zia Rìta ì sàntulàzzàru, frazione della piana sandonatese nella quale aveva proprietà e risiedeva;

-zìu Fràncìscu ì cìccusavèriu, il quale più che màssàru era fàttùru in quanto, oltre che le sue proprietà, sovrintendeva anche quelle di alcune famiglie sandonatesi (ad esempio i Martucci)

Ora bando ai ricordi personali e diamo spazio a quel che ci tramanda il Padula, tratto dal Bruzio pubblicato il 25 giugno 1864:

 

“””” Il Massaro.

Le indagini, delle quali ci occuperemo, sono della massima importanza, se non per i nostri lettori calabresi, per quelli almeno dell’alta Italia, i quali ignorano le nostre condizioni.

Esponemmo quelle delle nostre industrie e terreni, ed ora intendiamo notare lo stato delle persone.

Lo stato delle persone in Calabria è composto di tre ceti, il basso, il medio e quello dei galantuomini.

Formano il basso gli agricoltori possidenti, i fittajuoli, i coloni, i braccianti, i pastori, i guardiani, i garzoni, ed i servitori; e noi studieremo l’indole, i bisogni, i vizi e le virtù di ciascuna di queste classi per migliorare lo stato morale della patria nostra.

L’agricoltore possidente è presso noi chiamato massaro. È massaro chi ha una masseria, e dicesi masseria un campo seminato.

Il campo è suo, sue le capre o le pecore, che lo stabbiano, suoi i bovi che lo arano, suo l’asino che ne trasporta i prodotti; e nei tempi dei lavori campestri ha denaro che basta a pagare l’opera dei braccianti, che lo aiutano.

All’aria d’importanza che gli si legge nel viso, all’andar tardo, alle parole rare e misurate, voi conoscete il massaro.

Egli deve rispondere a botte come l’orologio, guardare poco in faccia il suo interlocutore, e sputa sentenze.

Siffatte sentenze sono svecchi proverbii, e ci serviranno a farcelo conoscere.

Egli dice: Terra quanto vedi, vigna quanto bevi, e casa quanto stai; e ‘l massaro ama la terra lasciatagli dal padre, e si studia d’ingrandirla con compre successive; e volendo conservarla intera, accorda moglie ad un solo dei figli, ed alle femmine da la dota in denaro.

Trascura la coltura delle vigne e la bellezza e l’ingrandimento delle case; e se queste in tutti i nostri paesi son piccole, ad un piano, e l’una all’altra addossate, la ragione non dee recarsene alla miseria degli avi nostri, m’alla loro condizione di massari.

Ora i fabbricati si migliorano; gli artigiani amano il lusso, vogliono il balcone, vogliono i vetri alle finestre; ma le loro casette così belle al di fuori sono povere internamente, mentre le case dei nostri antichi massari nascondevano sotto un’umile apparenza una vera dovizia.

Chi vò mangiari pani, e vìvari vinu,

Simmini jermanu, e chianti erbino.

E ‘l massaro, che vuol mangiare pane, preferisce la segale (jermanu) al frumento, e l’erbino (specie di vite che dà uva sempre, ed in abbondanza) a qualunque altra vite. Il suo pane è di segale, cibo duro, ma che sostiene meglio le forze; e coltiva il grano, per venderlo, non già per usarlo, tranne i giorni solenni dell’anno.

In Calabria il pane di frumento serve ai soli galantuomini, e dicesi pane bianco, e Donna di pane bianco significa Signora.

Vi sono eccezioni a questo fatto, e le diremo in appresso.

Casu dimmaggia casa.

Prisutto è na rutta.

Pani tuostu manteni casa.

Sparagna a farina quannu a tina è china;

Quannu u culacchiu pari nù bisogna sparagnari.

E ‘l massaro governandosi con queste regole, benché le pecore del suo campo gli diano buoni formaggi, benchè ad ogni gennajo si uccida uno e due porci, pure si astiene dal cacio (casu), che danneggia (dimmaggia) gl’interessi di sua casa, e dal pregiutto, che basta manomettere (rimpari) per poco, perché si consumi in un giorno.

Risparmia la farina, quando il tino n’è pieno; non compra carne fresca al macello, ma mangia legumi, e minestra di cavoli con carne salata dentro.

Non beve al mattino né caffè, né acquavita; queste chiama abitudini di pezzenti, e memore del proverbio: Chi vivi avanti u Suli forza acquista e mindi culuri; Chi mangia de bonura) Cu nu puinu scascia nu muru.

Si fa, come si toglie al letto, il panunto con un tocco di lardone infilzato allo spiedo, lo innafſia con un bicchiere di erbino, e va al lavoro.

In casa però non gli mancano le cose di lusso. Nelle fiere si provvede di rosolii, di dolci, di confetture, ch’egli serba in caso di malattia, o di visita che riceva dagli amici.

La sua donna fabbrica il pane una volta a mese, lasciandolo indurire nel soffitto, perché se ne consumi meno; giacchè il marito le ripete: Pani tuostu mantene casa, e vi vogliono veramente i ferrei denti dei nostri tangheri per sgretolarlo.

Egli pero lo affetta mescolandolo con la sua minestra brodosa, e siffatta abitudine è così propria dei massari, che, a senno loro, non è uomo compito chi non l’abbia.

Un sarto attillato e pinto avendo chiesta a sposa la figlia d’un massaro, il padre, a provare se il futuro genero fosse degno di lui, lo invita a pranzo, e chiama a tavola un’abbondante minestra di cavoli con grandi pezzi di lardone

Il sarto vede la minestra fumante, e la guarda. “Perché non mangi?” “Aspetto che si freddi?”  e prese a soffiarvi sopra.

Il massaro sorrise: vi butto dentro grosse fette di pane, e subito la minestra si raffreddo.

Voi non siete per mia figlia, riprese poi: non è uomo di pane chi non sa l’uso del pane; e le pratiche si ruppero.

Il massaro ha stomaco capace e forte; mangia quattro volte al giorno, e dice: Saccu vacanti nun si reje all’irta; trascura l’eleganza del vestire, le sue brache sono le brache più larghe, il suo cappello è ‘l più vecchio cappello, e ripete:

Trippa china, canta, e non cammisa janca;

Trippa china, e faccia tinta.

La sua faccia non è dunque sempre polita, la sua camicia non è sempre di bucato; ma è ricco, è indipendente, ed ama il lavoro.

Va a letto al tocco, e se ne leva all’alba, anzi prima.

Prima ch’u gallu canta, susiti e va fora;

Si vu’ gabbari u vicinu, curcati priestu, e susiti matinu;

Chi si leva matinu abbuschia nu carlinu;

Chi si leva a juornu s’abbuschia nu cuornu, son le massime che il padre lascio a lui, e ch’egli lascia ai suoi figli.

Questi son docili, ubbidienti, e bene educati; non cachinnano, ma ridono, non ridono, ma sorridono, e ciarlano mal volentieri; perché il padre che domina in casa con governo assoluto, ripete sempre a loro:

Il iuoco è nu pocu,

A risa è na prisa,

A jumi cittu nu jiri a piscari.

Essi ajutano il padre nei lavori del campo, e nelle cure del gregge. Le pecore son preferite alle capre, perché secondo il lor detto: Sett’anni inpecora, ed uno specora, vale a dire che le pecore se non fruttano un anno, fruttano pero sett’anni di seguito, e la guardia non se ne conſida a persone estranee e mercenarie, perché il massaro ha trovato scritto nel suo codice: A piecura è de chi a siecuta, vale a dire, la pecora appartiene a chi le va appresso.

Il massaro rientra in paese la sera di ogni sabato; la dimane esce in piazza, siede nel sacrato della Chiesa, e là tutti i contadini lo circondano; gli usano mille atti di rispetto, gli chiedono consiglio, gli domandano soccorso, lo pigliano ad arbitro nelle loro controversie.

Egli decide, e le sue sentenze sono inappellabili. U Massaru è seggia e nutaru; ed egli è notajo, è avvocato, è giudice, è quello che gli antichi patriarchi erano nelle antiche tribù.

Nei piccoli paesi, dove non sono famiglie di galantuomini, il massaro è il factotum.

Il parroco, i preti, i monaci lo corteggiano, perché egli da loro a vivere con le sue elemosine. e decide della loro buona opinione.

Il predicatore quaresimale gli fa la prima visita, perché sa che, predicando egli, se il massaro dorme in Chiesa, tutti dormono, s’egli sputa, tutti sputano, se arriccia il naso in segno di disapprovazione, i contadini, che guardano come in una bussola nella punta del naso del massaro, disertano dalla Chiesa.

La moglie del massaro è onesta, laboriosa, ed un po’ superbetta.

Ella dice: Lana e linu amaru chi un ni fila!

Pani, amaru chi un ni schiana ca puru cu li màllari ti ni ſai na pitta.

E lavora di lana e di lino, e nulla manca in sua casa; e se le vicine le perdono il rispetto, ella con un fare imperioso risponde:

I gidita nu su pari; e chi parrati rua, chi nun ristricati mai u villicu alla majilla? chi faciti a fellata, e vi liccati i curtella?

Il che vuol dire: A che parlate voi, che non vi strofinate mai il bellico contro la madia, e che vi leccate il cortello, quando fate a fette il pregiutto?

Dopo ciò si comprende, senza dirlo, che un massaro scapolo sia ambito da tutte le donne del paese.

Una canzone dice:

Si vu’ mangiari pani de majisi,

Pigliati nu massaru, Donna bella;

Nun ti prejari du càvuzu tisu,

Chi ti porta lu pani in tuvagliella.

Il calzone teso è l’artigiano, che veste attillato, che compra il pane in piazza, e lo avvolge nel tovagliuolo; e la donna bella non dev’essere lieta dell’amore di costui, ma del massaro, che le fa mangiare pane di maggese

E se la donna fu sorda a questo precetto, non manca altra canzona popolare, che ne la rimprovera:

De mille amanti tu tenia na pisca

E ti pigliasti nu bruttu craparu:

Ti innamurasti d’a ricotta frisca;

Va, vidi allu granaru si c’è granu.

Mo ti è trovari na rigliara stritta,

Pecchi d’a làriga mi schioppa lu granu.

L’ironia degli ultimi versi è bellissima. Tu, si dice alla donna, dèi procacciarti un crivello fitto; perchè se non è fitto, il grano, che ti porta il tuo marito, ne cade giù.

Un’altra canzone più bella fa il confronto tra il massaro e ‘l marinaro, e dà al primo a preferenza.

Parti lu marinaru, e va pe mari

Lassa menza cinquina alla mugliera.

La cinquina è 11 centesimi; e ‘l marinaro è così povero che gliene lascia alla moglie la metà.

Muglieri mia, accattaticci pani,

Nzinca chi vaju e viegnu da Messina.

E la moglie resta con sei centesimi, che le debbono bastare a provvedersi di pane, ſinchè il marito va e ritorna da Messina.

Può contentarsene? No; e quindi ella esclama:

Santo Nicola miu, fallo annicari;

Un mi ni curu ca riestu cattiva.

E non le duole di rimanersi vedova (cattiva) e prega S. Nicola, che il marito si anneghi; perché passerebbe a seconde nozze con un massaru, conchiudendo così:

A quantu va na scianca di massaru

Nun ya na varca cu tricientu rimi.

L’anca d’un massaro vale più d’una barca con trecento remi; ed in Calabria, non so perché, si attacca all’anca un’idea di nobiltà.

La donna ingiuriata da altra donna le dice: Di me tu avessi un’anca! e nella vita di Pittagora, che visse in Calabria, troviamo tra l’altre favole che quel filosofo avesse una anca di oro.

Pittagora ha dunque lasciato la sua anca di oro ai nostri massari, ed alle nostre donnette oneste, perché le loro anche si pregino tanto?

Il numero dei massari cominciò a scemare sullo scorcio del secolo precedente, ed ora è ridotto a ben piccola cosa.

Con le leggi eversive della feudalità sparirono gli usi civici, i beni ecclesiastici divennero allodiali di pochi, crebbero i fitti delle terre, montarono i prezzi dei pascoli, ed i massari fallirono l’uno dopo l’altro.

Aggiungasi a ciò la febbre ambiziosa che invase tutti gli animi, il desiderio di uscire dalla propria classe, e l’amore del lusso, cose tutte sconosciute prima della invasione francese, e per le quali avvenne che il massaro vendé i buoi e l’aratro, il piccolo podere e la capanna per dare al figlio un’arte, od una professione.

Una turba di preti, di medici, e di avvocati, di sarti e di calzolai succedette agli antichi massari, la quale se non ebbe addosso la sordida giubba del padre, e l’uosa di cuoio bovino al piede, non n’ebbe neppure né l’indipendenza d’indole, né la vita agiata e sicura, né la tranquilla e venerata vecchiaia.

Tolti i pochi nobili preesistenti alla rivoluzione francese, tutti gli altri nostri galantuomini attuali sono figli di massari che ai 1783 solcavano la terra.

E fin d’allora prese a scemare l’amore per l’agricoltura, e ‘l numero degli agricol tori, e quello crescere invece degli artigiani, degli avvocati, dei medici e dei preti, con danno della pubblica quiete e della pubblica morale.

Coloro che attualmente si contano in maggior numero sono i massarotti, e vanno divisi in quattro classi.

La prima classe è di quelli a cui il galantuomo proprietario da uno, due, o tre paia di buoi. La spesa pel loro nutrimento e per l’aratro, pel carro e per gli attrezzi e gli accessorii di entrambi si dividono ugualmente tra il massarotto e ‘l proprietario, e si divide del pari il guadagno.

E questo secondo le annate è ragionevole. Nell’autunno per la semina del grano, ed in esta per la piantagione del grano turco il massarotto loca l’opera sua.

Ogni campo tra noi chiede tre arature, che diconsi rottura, alzatura e seminatura, ed ogni bifolca si paga tre lire e 39 centesimi, sia che si faccia per scassare, solcare, o costeggiare le porche, sia che si adoperi per trebbiare.

Ed oltracciò il massarotto riceve dal padrone del campo non pane, non vino, ma il solo companatico.

E poiché i mesi della semina sono varii secondo che i nostri paesi sono in valle, in monte, o a mare, il massarotto, compiuti i lavori in un paese, emigra in un altro.

Nei paesi freddi si arano i terreni dopo la caduta delle prime acque, e si terminano le opere ad ottobre; da questo mese poi alla vigilia di Natale il massarotto lavora nei paesi valligiani e marittimi, e tutto quel tempo dicesi della guadagna.

E la guadagna finisce con l’antivigilia di Natale, giorno solenne che il massarotto torna a sua casa col borsellino pieno, per sedersi al focolare innanzi al ceppo ardente dell’olivo, è tenere, secondo le nostre antiche costumanze, il manico della padella, mentre la moglie vi versa a friggere nell’olio le diverse ragioni di paste, che si adoperano in quella festa.

Uscito il tempo della semina, l’aratro si ripone in un canto della stalla, e si attaccano i buoi al carro; e ‘l nolo che se ne paga è diverso secondo le distanze ed i patti.

Egli è perciò che questa prima classe di massarotti è agiata nei paesi, che hanno vie carreggiabili, e miserabile in quelli che ne son privi.

In questi i massarotti non trovano lavoro che in due sole stagioni dell’anno; nell’altre stentano la vita, né possono ad altro adoperare utilmente i buoi che al trasporto di legname.

Il che, a tacere dei bisogni dell’industria, dev’essere motivo che basti a persuadere i nostri comuni a moltiplicare il numero delle strade, che ricevono i carri.

La seconda classe è di quelli che prendono dal galantuomo proprietario uno, due, tre paia di buoi a pedalico, specie di contratto del seguente tenore.

Si fa la stima d’un paio di buoi (che valgono presso noi un 424 lire); il massarotto ne assicura la proprietà, e si obbliga pel tempo pattuito di dare ogni anno al proprietario tre ettolitri e 33 litri, cioè, come diciam noi, sei tomoli di grano.

Questo contratto è immorale, perché il proprietario non rischia nulla; il suo capitale in bovi è sempre sicuro, e poiché il prezzo medio tra noi di ogni 55 litri e 54 centesimi di frumento è di lire 10 e 18 centesimi, è chiaro ch’egli impiega il suo denaro alla ragione del 14 per cento.

Il massarotto della terza classe è il mezzaiuolo di Toscana.

Il proprietario gli dice:Tu hai i bovi, io ho la terra: io ti do la terra, e ti anticipo le sementi. Le terre sono di dieci moggiate, ti do dieci moggi di grano, e tu lo seminerai.

Alla trebbiatura io mi preleverò dalla massa i dieci moggi di grano, che ti ho anticipato; più dieci quarti come frutto dell’anticipazione, più trenta moggi come terratico, e ‘l resto si dividerà.

Questo contratto è immoralissimo, e nei paesi dove i galantuomini non divertiti da studii letterarii attendono ai campestri è cagione d’immedicabile miseria.

Perché in tutto il Vallo di Cosenza le terre rendono il sei, negli altri paesi il dieci nelle migliori annate; sicché su per giù la media del prodotto è di otto per ogni moggio.

Levatene tre di terratico, uno ed un quarto di semente, dividete a due i tre ed un quarto che rimane, e vedrete che per un anno di fatica personale, e per frutto di quella dei buoi il massarotto non ha più d’un moggio e tre quarti!

Questa misera condizione di cose ha dato origine al proverbio: Il povero s’affatica pel ricco.

La quarta classe dei massarotti è quella dei fittuari. Avendo bovi e poche vacche prendono a fitto terreni dove possano seminare e pascere insiememente.

Nel vallo i terreni non riposano; dopo la mietitura del grano si debbiano immediatamente, si arano, e si pianta il grano turco, e ‘l ſittaiuolo dà al proprietario due moggi di frumento ed altrettanti di grano turco per ogni moggio di terra.

Se il terreno è irrigabile, lo coltiva a poponaie, e di questa coltura non da niun merito al padrone, il quale si crede a bastanza compensato pel miglioramento che ricevono le terre dal concime voluto dalle poponaie.

Negli altri luoghi vale il principio che il fittuario deve al padrone pagare un dippiù per ogni altra cosa che semini oltre del frumento e del grano turco. I frutti degli alberi non entrano nel prezzo di fitto. Gli alberi comuni tra noi sono i fichi, gli olivi, i castagni, le quercie, ed i gelsi.

Se il fittuario vuol i frutti e le frondi, se ne fa la stima; altrimente il padrone li vende altrui; per la compra della fronda del gelso il fittuario è preferito; e prima d’introdursi la seta organzina, pagava per ogni quintale di fronda quattr’once di seta.

Cirella; ora paga otto libbre di bozzoli; e il caro dei prezzi, e la malattia dei bachi han fatto sì che l’industria serica va scadendo l’un di più che l’altro.

Al momento che scrivo, i gelsi del Vallo nostro verdeggiano di frondi, che nessuno raccoglie; ed i proprietarii invece di scemare l’enorme prezzo, che finora han richiesto, durano saldi a ritenerlo.

Vero è bensì che da 15 anni a questa parte non si è fatto altro che piantare gelsi: ma l’industria serica non è cresciuta, ed i gelsi cresciuti devono ora tagliarsi.

Insomma: l’industria serica è tra noi esercitata dalle donne dei massari, dei massarotti, e degli altri contadini; ed esse la trascurano, perché spaventate dall’enorme prezzo della fronda han detto al pari dei loro mariti: Il povero si affatiga pel ricco.

Ma massarotti, di cui siamo a discorrere mandano a male i terreni, che tolgono a fitto dal ricco; giacché non avendo l’abitudine di chiudere nelle stalle i buoi rovinano tutte l’alberatura del fondo; il che fa si che non trovino facilmente chi fitti loro le terre. E pero dove mancano terreni comunali questi ultimi massarotti, di cui parliamo, sono assai pochi.

La sparizione della classe dei massari, e la diminuizione crescente dei massarotti sono due piaghe dell’ordine sociale tra noi.

Il nostro popolo è quasi tutto attualmente di Coloni, e di braccianti, e che siano costoro lo vedremo nel prossimo numero.

Novembre 2020

Minùcciu

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1 commento

    • alfredo badolato il 18 Febbraio 2024 alle 9 h 32 min
    • Rispondi

    per comprendere chi era il massaro bisognerebbe entrare nello spirito di quei tempi e di quei luoghi (diciamo gli anni che vanno dalla fine del 600 alla fine dell’ ottocento e per i luoghi un pò tutta la Calabria).
    Per noi cittadine del XXI secolo è ” pieno medio evo”!
    Immaginate un mondo senza corrente elettrica, senza mezzi di trasporto , senza mezzi di diffusione dell’informazione . senza acqua corrente e fogne , solo la Chiesa e tutto un mondo che si portava dietro.
    In questa “asfissiante ” atmosfera c’è solo la lotta quotidiana per la sopravvivenza per moltissimi e per pochissimi il dolce non far niente foriero dell’insignificante contributo del calabresi alla vita culturale della nostra Italia .
    Si ci sono le eccezioni ,lo so . Ma a parte quelle c’è il nulla ,che ha portato la Calabria ad essere quello che tristamente è oggi.
    Solo i Massari rappresentano una luce di modernità e di intraprendenza che purtroppo si è spenta
    Io sono un Calabrese , discendente da un massaro , che ha “vigliaccamente” lasciato il suolo natio, ma che lo tiene sempre nel cuore

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