Cùmu ghèramu: A’ rròbba.

Luigi Bisignani

Ricevo e pubblico,anche d’estate Minucciu, continua le sue ricerche su San Donato e ci fa regalo di questo bellissimo articolo.

A’ rròbba.

M’àmmièntu ì quìri viècchj chì qùànnu pàrlàvanu dà ggènti bbòna, azzìnnàvanu sèmpi à quìru dìttu àntìcu cà facièdi: ‘Ntà fàmìgghja chì gàdi àbbòja rròbba, acchjàncùnu g’àrrubbàtu”.

Volevano sottolineare che se possiedi molto più del necessario, per questo sei già di danno ad altri.

Nella tradizione paesana, ove il proverbio aveva preso corpo, probabilmente vi era ancora memoria di quella classe sociale definita “à ggènti bbòna”, la quale, cogliendo al volo opportunità offerte dalle frequenti invasioni e conquiste delle nostre terre (da ultimo le rivoluzioni del XIX secolo fra le quali la conquista francese e piemontese), aveva realizzato ruberie ed usurpazioni ai danni delle classi sociali “minori” colpendo duro gli interessi e le legittime aspettative del popolo minuto.

Con la conquista francese venne abolita la feudalità e soppressi gli ordini religiosi. Conseguenza fu che sul “mercato” finirono tutti i beni confiscati. Questa fu l’occasione in cui pochi riuscirono ad impadronirsi di beni, non solo demaniali o feudali, ma anche terre che da secoli erano di uso civico e delle quali fruivano i ceti meno abbienti i cui diritti vennero usurpati ed incamerati dalla nobiltà e dalla borghesia, uniche classi a disporre del danaro necessario agli acquisti.

Sull’argomento ho trovato un intervento di Vincenzo Padula, pubblicato nel 1864 sul giornale “il Bruzio”, da lui fondato e diretto. Dallo scritto traspare quale era, in quel periodo, la situazione dell’agricoltura nella nostra provincia e la condizione delle terre sandonatesi non doveva essere molto diversa.

Personalmente non ho condiviso alcune prese di posizione dell’autore ,il quale s’è un po’ lasciato prendere la mano, forse troppo influenzato dai personali trascorsi “risorgimentali” e quindi ha fatto considerazioni venate da eccesso di “patriottismo”.

L’autore ha sviscerato l’argomento prendendo in esame le usurpazioni nello scritto del 28 maggio e le quotizzazioni con l’articolo dell’8 giugno..

In corsivo il testo dell’intervento del Padula

Le Usurpazioni ””Mettiamo le mani in una materia che scotta; ma fedeli al nostro programma di moralizzare il paese non dubitiamo di rivelare le nostre vergogne, sperando ch’educati al soffio della libertà possano i figli essere migliori dei padri.

In contrada come la nostra, dove i paesi più importanti sono mediterranei, e mancano ed arti, ed industrie, e strade, e porti che aiutano, se nato, e, se non nato, producono lo spirito di speculazione, è chiaro che l’occupazione precipua dei nostri popoli dovea essere l’agricoltura.

Benestanti, che vivono di reddito prediale, artigiani e professori, che vivono con l’esercizio del loro mestiere, e villani, o braccianti o fittaiuoli, che vivono con la zappa, furono e sono tuttavia le tre classi, nelle quali entrano gli abitatori della nostra Calabria.

A tutte e tre essendo fondo comune di sussistenza l’agricoltura, dalla sua floridezza nasceva il benessere dei cittadini, e dal costoro benessere quello del ceto medio formato di artigiani e di professori.

Ciò che dunque si raccomanda sopprattutto alla scienza economica tra noi è lo stato dei contadini, che danno i nove decimi della popolazione, ed ai quali unico argomento ad assicurare la loro vita e l’altrui è la terra.

La storia della terra dal lato geologico è la storia dell’uomo fisico, e la storia della terra dal lato agricolo è la storia dell’uomo considerato com’essere morale e come persona giuridica, in modo che la scienza inamena del Dritto può ridursi ad una storia dilettevole e ragionata dei terreni, e delle vicende dell’agricoltura.

Qual è dunque la storia dei terreni in Calabria?

Dalla fondazione della napoletana monchia a tutto il secolo passato i terreni furono feudali, ecclesiastici, demaniali, ed allodiali.

Gli allodiali erano pochi, pochi i grandi proprietarii, oneste le fortune, onestissimi i padroni, e l’aurea mediocrità di Orazio conveniva all’une ed agli altri.

I Re, i Baroni e le Chiese, parte per generosità, parte per bisogno, ora cedettero, ora col peso di canoni annuali diedero ai comuni una porzione dei loro terreni, e così nacquero i beni che furono detti beni della università, o beni comunali.

Perlustrando a quei tempi i nostri paesi tu avresti trovato delle terre un terzo appartenente al Barone del luogo, un terzo alle corporazioni religiose, un terzo al comune, e quà e là tra queste tre specie di fondi il campicello e il vigneto allodiale, cui tale confessavano il governo migliore, e la coltura meglio intesa.

Allora il Dio Termine era divinità formidabile: potente il principe del luogo, potente il clero; e l’uno e l’altro ne rendeano inviolabile il culto.

E il popolo nato con la zappa?

Il popolo nato con la zappa non era libero, e si comprende, non avea istruzione, non sicuro l’onore, non garentita la libertà individuale; ma possedeva in quella vece ciò che tutti gli statuti non han potuto ancor dare, lo stomaco pieno.

Coltivava i terreni ora del comune, ora del principe, ora della chiesa; e ciò che pagava non solo era una miseria, un moggio di grano per ogni moggiata di terra, e spesso meno; ma la contribuzione era stabilita per una sola specie di coltura; vale a dire, se il terreno era seminatorio, il contadino mi dava un moggio di frumento dopo aver trebbiato; ma non era obbligato a darmi più nulla per tutto altro che vi avesse o seminato o piantato dopo la trebbiatura.

Più. Godeva degli usi civici, e nei marroneti e nei vigneti, e via discorrendo, succedeva dopo la raccolta delle castagne e la vendemmia ciò che dicevesi sbarro.

Il popolo v’introduceva i suoi animali, vi andava per erbe e frasche, e nei geli di inverno, stagione nella quale, come dice un proverbio calabrese, “chi ebbe pane morì, e visse chi ebbe fuoco”, possedeva non solo fuoco, ma pane.

È vero che il Barone ne carezzava la moglie, è vero che l’arciprete e il monaco succolento faceano gli occhi dolci alla figlia: tutto il male era lì, ma si mangiava.

Ai tre trattati, in cui si divide l’economia politica, di produzione, consumo e riproduzione della ricchezza, noi, se potessimo, potremmo aggiungere quello della distribuzione.

A chi ha cuore e principii di morale che preme se la industria cresciuta fa che il terreno invece di uno produca mille, se di quei mille invece di vivere mille, vive un solo?

Teneri figli di questa Calabria ne studiammo con lungo amore la storia; e cadutoci sotto occhio il censimento di varii comuni del 1748, nello Stato delle persone trovammo ogni mestiere tranne quello del pizzicagnolo e del rivenditore a minuto.

Il numero crescente di questa sorte persone sta in un popolo agricolo come il nostro in ragione della crescente miseria; ed allora mancavano affatto, perché l’ultimo dei contadini era in tale stato di agiatezza da provvedersi anticipatamente nelle fiere di tutto ciò che gli potesse far bisogno nel corso dell’anno.

Di qui, a quei tempi, non colossali fortune, né colossali miserie, non uggiosi cipressi accanto agli umili viburni, ma una graduata comodità, che non irritava gli animi, ma gli univa, improntando ai nostri costumi una cordialità ch’è sparita, una sincerità che si desidera, una benignità d’indole che si ricorda con dolore.

Questo stato di cose cessò con la occupazione francese e con le leggi del 1806 eversive della feudalità.

Ogni rivoluzione è essenzialmente demoralizzatrice: essa sbriglia gli appetiti più ignobili, e l’esempio delle subite fortune, e dei guadagni improvvisati produce una febbre, che spinge una classe addosso all’altra come flutti di mare in tempesta.

E questo allora segui. Decimate dal brigantaggio e dalle guerre civili le antiche famiglie dei proprietari e dei nobili, venduti a vil prezzo i beni feudali ed ecclesiastici, nacquero nuovi nomi, e nuove ambizioni.

Agli antichi Baroni, il cui genio per le libidini e pel sangue era temprato dall’educazione, dall’uso del potere, dal sentimento del decoro, succedettero, dove più, dove meno, pochi prepotenti per paese, i quali abusarono della ricchezza e del potere, perché nuovi al potere ed alla ricchezza volevano sperimentarne l’impero, perché consci di loro bassi principii si studiavano a cancellarne la memoria in se medesimi e negli altri con l’uso brutale della forza.

Così il feudalismo fulminato dalle leggi rimase nel fatto, e più terribile, più corruttore, più odiato di prima: il Dio Termine ebbe il suo Renan, e fu precipitato dal piedistallo; s’invasero i terreni comunali, s’invasero i pochi beni rimasti alle Chiese, ed uomini armati fino ai denti col nome di Guardiani si posero a custodia dei male acquistati terreni.

Dovrò dire come la pecorella del povero, che memore degli antichi dritti timidamente vi entrava a cercarvi un fil d’erba, venisse sequestrata?

Dovrò dire come la figlia del popolo che vi si conduceva a raccorre la frasca caduta fosse percossa, spogliata, disonorata?

Il popolo nato con la zappa non ebbe più la scelta tra terreni comunali, feudali ed ecclesiastici; ricevette la legge e non l’impose, pagò per ogni moggiata di terreno tre, quattro, e cinque moggi di grano, il proprietario gli disse: se anche pianti origano nel mio fondo, ne voglio parte: la sua moglie seguì ad essere accarezzata, la figlia ad essere guardata con occhi dolci; ma le corna non furono più di oro; il principe pagava, l’arciprete e ’l monaco succolento pagavano; i nuovi venuti non pagarono che con busse, e ‘l popolo restò digiuno.

I Comuni spogliati, al vedersi sommessi alla imposta fondiaria per vasti territorii che non più possedevano, reclamarono. Ma chi potea far dritto a quei reclami?

Usurpatori erano i Sindaci, usurpatori i Decurioni, e de titoli di proprietà posseduti dai comuni eglino falsarono una parte, involarono un’altra, e parecchi che si trovavano in deposito negli offici d’Intendenza sparirono ancora misteriosamente.

Tutti questi fatti immorali corrompeano il cuore del popolo: se il popolo di veniva brigante, non eravamo noi a dargliene l’esempio? E di noi che rubavamo al comune 10 moggiate di terreno, e del brigante che rubava a noi quaranta pecore chi era il più colpevole?

Mille volte si tentò di rivendicare l’usurpazioni, ma invano: i Consiglieri che a ciò veniamo deputati dall’Intendenze appartenevano, come diceva il popolo, alla razza dei cani barboni.

Alloggiavano in casa degli usurpatori, e tra i pranzi fumanti ed i calici coronati dalle spume dello Sciampagna chiudevano gli occhi generosamente, e lasciavano che le acqua corresse pure al suo chino.

Al 1848 l’ira popolare fino allora compressa finalmente scoppio.

Le popolazioni guidate dai più vecchi contadini ch’ivano innanzi portando in mano Crocefissi e Madonne irrupero nei terreni usurpati: illegale era quel procedere, e niuno il nega; si commisero atti di vandalismo, ed è verissimo; ma un dritto sacro ed imprescrittibile era in fondo a quel movimento, ed anche questo è innegabile.

Che fecero gli usurpatori? Si giovarono della reazione borbonica ed accusarono come Comunisti e discepoli di Fourier i nostri poveri tangheri che si credevano trasportati nella valle degl’incantesimi, quando il Giudice gravemente gl’interrogava: Siete voi socialisti?

Di quegl’infelici, il cui torto era di aver ragione, alcuni morirono nelle prigioni, altri furono mandati in esilio: e per questo modo gli usurpatori unirono al furto prima l’immoralità, poi la falsificazione, poi l’omicidio, poi le lacrime di mille famiglie, e gli onesti fremettero in terra, e gli angioli piansero in Cielo.

La Storia dirà come di quelli movimenti incomposti del 48 il borbonico governo avesse gran parte.

Quando dopo i fatti di armi di Castrovillari il generale Busacca venne in Cosenza, ai proletarii di tutti i paesi, che si recavano a lui implorando giustizia, egli dava eccitamenti alle rapine e al sangue.

E rapine si fecero, e sangue si sparse; ma compiuta la reazione, il governo, che prima avea favoriti i proletarii a danno degli usurpatori, favori questi a danno di quelli, poi cangiando metodo disgustò gli uni e gli altri con le operazioni del Barletta, che furono arbitrarie in parte, incompiute in tutto.

Ora a sanare questa piaga marciosa che provvedimento ha preso il presente governo? Lo diremo nel prossimo numero.

La quotizzazione  ””Della mancanza di vita pubblica, onde accusammo il paese, è da recarsi la cagione a quella della pubblica morale.

Quinci il governo con l’esempio, e quindi il Clero con l’educazione altro non ci predicarono che l’adempimento dei doveri che costituiscono la morale privata.

Sì nei pulpiti, e sì nei confessionili non s’inculcò mai il rispetto dovuto ai beni del Comune ed al denaro delle pubbliche amministrazioni; e però le nostre coscienze si fecero scrupolo di frodare il vicino, ma non le Università, e se di restituzioni fatte in punto di morte ai particolari non mancano esempii, gli esempii si desiderano per ciò che concerne i comuni.

Tra gli usurpatori noi avremmo voluto che si fosse trovato chi mosso da sentimenti di giustizia e di probità avesse detto: Ho rubato sotto un governo ladro, ed ora restituisco sotto un governo libero.

Che felice mutamento non ne sarebbe venuto al pubblico costume!

La virtù è contagiosa al pari del vizio, e bastava l’esempio d’un solo proprietario perché mille volentierosi lo imitassero.

Ma non fu così: la gloria che segue gli atti di eroica virtù non è ancora obbietto di nostra ambizione, e tosto che il governo dispose la reintegra e la quotizzazione dei terreni comunali, gli usurpatori si studiarono per tutte le guise di eluderle.

E fossero stati contenti ai cavilli legali; ma tra loro non mancò chi sbigotisse i proletarii.

Scordaste dunque, dicevano ad essi, le vicende del 48? Anche allora invadeste le nostre terre, e morte prigionia e miseria furono le debite pene alla vostra audacia.

Ora il governo ve le divide; ma quanto starà in piedi codesto governo? Al prossimo ritorno del Borbone ripiglieremo il mal tolto, ed allora guai a voi!

E vi ha certo onde fremere per la viltà a cui ci educò gli animi il secolare dispotismo, a pensare che in molti paesi i proletarii o protestarono contro la quotizzazione, o si mostrarono indifferenti a giovarsene.

Ma la Prefettura si pose arditamente all’impresa. A noi certo non garba, teoricamente parlando, quell’ibrida istituzione, che toglie, per darla altrui, la facoltà di giudicare alla Magistratura,e che dicesi Contenzioso-amministrativo: noi pensiamo unico modo legale ed efficace di risolvere le controversie tra gli usurpatori ed i comuni esser quello di rimetterle ai Tribuuali ordinarii; ma nel caso nostro come potrebbe ciò farsi senza ledere gl’interessi delle popolazioni?

Quanti sono i Sindaci che non abbiano usurpato? Quanti i Consiglieri municipali egualmente irriprovevoli?

Ed anche a supporli tutti, senza l’eccezione d’un solo, onestissimi, vorremmo sapere in quanti di loro si trovi coraggio civile da far guerra all’intrigo. Ciò ch’è seguito di recente al comune di Tortora ci serve mirabilmente di esempio.

Il Duca di Tortora creditore di esso comune introduce un giudizio di espropria, e nel gennaio del 1862 i due boschi comunali Cavuta e Sarviola, messi all’asta pubblica, si aggiudicano per ventimila docati a D. Francesco Marsiglia.

L’anno seguente il Duca sequestra gli anzidetti due fondi assieme con altri otto, che formano tutto il patrimonio del comune; l’espropria è menata innanzi rapidamente; il Municipio che non mostra nessun segno di vita lascia fare, e tutti i dieci fondi si aggiudicano definitiva niente a D. Francesco Marsiglia per novemila ed 860 docati, mentre il loro valore reale superava i novantamila, mentre, sette mesi innanzi, due soli di essi, Cavuta e Sarviola, erano stati al medesimo Marsiglia aggiudicati per ventimila docati!

La mano ci trema nello scrivere questo fatto.

Due contadini ne fremettero al par di noi; si posero la via tra le gambe, e nella vigilia del giorno ladro, che dovea consumarsi quella svergognata spoliazione del Comune, giungono stanchi e coverti di polvere in Cosenza, e si presentano al Prefetto. E ‘l Prefetto Guicciardi provvide all’uopo, e generosamente: si produsse appello contro la sentenza dell’aggiudicazione definitiva, si produssero delle offerte di sesto, s’intavolarono nuovi trattati col Duca di Tortora.

E a crimine uno “disce omnes”. Or voi lasciate gl’interessi dei Comuni alla nota cura paterna dei Municipii, togliete a Prefetti come Guicciardi il mandato di rivedere le controversie tra i Comuni e gli usurpatori, e vedrete che ne avverrà.

La Prefettura dunque si pose, come dicemmo, all’opera della quotizzazione, e ‘l suo primo ostacolo per menarla innanzi utilmente e speditamente fu l’articolo 49 delle disposizioni messe fuori dal governo al 1861 per regolare l’operazioni demaniali.

Quell’articolo era concepito così: «I Commessarii si asterranno dall’adottare il procedimento eccezionale della reintegra, quando l’istanza del comune non sia fondata sulla dichiarazione giuridica della demanialità del fondo controverso; ovvero, quando il prevenuto di occupazione possegga da trent’anni senza molestia nè di fatto, nè di dritto, o da dieci anni con giusto titolo e buona fede» .

Quest’ultima parte è ben giusta, ed è l’unica parte che sia giusta; ma le altre due contrastano al buon senso ed all’equità.

Obbligare il comune a presentare i suoi titoli è crudele irrisione, quando si riflette che quei titoli furono, come dicemmo, o falsati, o involati: rispettare il possesso trentanario è anche ingiusto, perchè quel possesso non fu mai pacifico: non ebbe molestie di dritto, ed è vero, ma non ne ebbe perchè non potea averne, atteso che i Sindaci ed i Consiglieri, i soli che potessero promuovere quelle molestie di dritto, erano appunto gli usurpatori, o i loro attinenti; ma è vero pure ed innegabile che quel possesso ebbe molestie di fatto.

Nel caso d’un fondo ereditario, o indiviso, l’azione d’un solo dei coeredi o dei socii vale come se fosse intentata da tutti; e nel caso d’un fondo comunale le vie di fatto esercitate dall’ultimo cittadino valgono pure come esercitate da tutti.

Or queste vie di fatto ci furono sempre: si continuò a far legna, a transitare, a pascolare or da uno, ora da un altro nei fondi usurpati: quei parziali ardimenti furono puniti, ma l’esistenza della pena non prova sempre quella del delitto.

Tolte queste due disposizioni (che furono in seguito modificate) tutte l’altre erano informate dalla massima equità, e favorivano più gli usurpatori, che gli spogliati.

Ad eseguirle col maggior bene degli uni e col minor danno degli altri intese solertemente il Consigliere Alfonso Galasso.

Dal 61 al 65 si quotizzarono i terreni dei comuni di Torano, San Basile, Villa Piane, Amendolara, Cervicati, Spezzano Albanese, S. Lorenzo del Vallo, Civita, S. Marco Argentano, Altomonte, Scalea, Alessandria, Saracena, S. Caterina , Cerchiara e Frascineto. I terreni furono dell’ estensione di 5470 ettari, del valore di 992,797 lire, e se ne fecero 5255 quote.

Si conchiusero oltracciò varie conciliazioni nei comuni di S. Marco Argentano, Terranova, Corigliano, Civita, Spezzano Albanese, Saracena, S. Lorenzo del Vallo, Malvito, Scigliano, Torano, Marano Principato, e Marchesato, San Vincenzo, Cerzeto, Bisignano, Francavilla e Mongrassano.

Ed i terreni, oggetto di conciliazione, furono di ettari 848,77 e del valore di Lire 157, 176.

Queste operazioni furono accolte con grida di Viva il Re! Viva l’ltalia! e contribuirono non poco a rendere caro al popolo il nuovo governo. Speriamo che il sig. Rossi succeduto al Galasso voglia continuare l’opera del suo predecessore con pari zelo ed attività.

La quotizzazione non è ancora terminata; molti comuni ancora la invocano, e sarebbe pur tempo di contentarli.

E noi mettiam fine a questo articolo pregando tutti gli onesti d’illuminare i proletarii sui loro interessi, perchè non vengano ingannati dagli usurpatori Non son mancati dei Sindaci, e dei Consiglieri Municipali che mossi dalla turpe avidità di ottenere alcune quote deferirono falsamente alle Autorità di essere state rifiutate dai proletarii, e chiesero che si mettessero a vendita all’asta pubblica!

Non son mancati dei ricchi signori, che mostrandosi quanto avidi altrettanto ignoranti delle Leggi, immaginarono contratti di locazione per la durata di novant’anni; così sperando d’impadronirsi dei terreni quotizzati!

Deploriamo la vergogna di questi ed altri mille fatti, e facciam voti, a nome della libertà, della morale, e del liberalismo (il cui nome è stranamente abusato da parecchi sedicenti liberali usurpatori) che non si ripetano piu”.

Anche i sandonatesi hanno vissuto vicende simili a quelle narrate dal Padula. I nostri vecchi raccontavano delle lotte contro i guardiani che il barone aveva posto a sorvegliare vari lotti di terreni oggetto di contenzioso.

Il più conteso era à difìsa ì Ròsanìtu proprietà baronale che voce popolare definiva demaniale ed usurpata e sulla quale gli impossidenti andavano a zappare di notte per potervi seminare grano e patate.

Pare che in quel tempo un terreno seminato contro la volontà padronale, godesse comunque di una specie di immunità fino al raccolto, metà del quale, doveva essere comunque consegnato al proprietario del terreno, a cura e spese dall’agricoltore “abusivo”.

Memoria popolare sandonatese tramandava di una causa che vedeva contrapposti il barone ed il comune, sempre per via di quote di terreni dalla proprietà contestata.

Ed era voce corrente ed all’epoca diffusa dal “partito” opposto al barone, che questi, nei periodi in cui era stato sindaco, avesse aggiustato “pro domo sua” parecchie carte relative alla causa in corso, circostanza che pare ha poi ostacolato i Giudici dall’assumere una decisione definitiva sul contenzioso, peraltro mai chiuso in un’aula di giustizia.

 

Agosto 2019

Minùcciu

 

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