Cùmu ghèramu : U’ Puòrcu.

Luigi Bisignani

Ai miei quattro amici-lettori.

Minuccièddhu ha in animo di proporvi una serie di ricerche sulla provincia cosentina del milleottocento, traendo argomento ed ispirazione da alcuni articoli di Vincenzo PADULA, sacerdote ed insegnate da Acri (CS).
Detti studi vennero pubblicati sul bisettimanale “Il Bruzio” che ebbe travagliata e breve vita editoriale in Cosenza, fra il 1864 ed il 1865.
Padula era patriota e filo-piemontese e questo orientamento traspare negli scritti sul brigantaggio (che disapprova) e quando ci fa resoconti sulle condizioni socio-politico-economiche della Calabria (segnatamente la nostra provincia)
L’autore talvolta mostra poca comprensione sulle ragioni degli ultimi, quasi che la povertà fosse una colpa e questo può originare, sia dalla sua appartenenza all’alta borghesia (padre medico) sia dal senso di rabbia che suscitavano il lui i sentimenti di asservimento e di rassegnazione di larghi strati della popolazione:Quel che scriverò lo inserisco nella serie del “Cùmu ghèramu” gruppo di racconti nel quale ho chiesto fossero accorpati tutti i miei scritti di “vita paesana”, pio desiderio al quale ha dato corpo Luigi Bisignani(Gigiottto per gli Amici) rendendoli pubblici nel suo “Giornale”.
Inizio la serie ccù gùna dè rìcchìzzi dò paìsi, ù majàli.
L’àti rìcchìzzi ghèranu ì castàgni e rà gghjànna, entrambi frutti che fànu rìccu ù pòrcu (nel senso che cibandosene ingrassa) e pùru ù crìstiànu, (nei periodi di carestia le castagne hanno sfamato molti sandonatesi, così come le ghiande che essiccate e macinate fornivano farina dolciastra che mmìschàta ccù quìra ì jìrmànu vìnièdi àmmassàta e ccì fàciènu pàni).

Cùmu ghèramu: U’ Puòrcu

La “cronachetta” che segue venne pubblicata sul Bruzio il 4/5/1864. A scriverla fu l’editore e direttore, don Vincenzo Padula che, fra il serio ed il faceto, ci ragguagliava sulle condizioni socio-economico-sanitarie dei calabresi di quell’epoca, suggerendo anche qualche rimedio.
Condizioni che in parte, nel territorio sandonatese cent’anni dopo ancora persistevano.
Ancora negli anni sessanta, molte famiglie allevavano il maiale ‘tè càtuòj dò paìsi e talvolta alcuni capi vagavano liberamente ‘ntè vìcinànzi, assieme ad altri animali da cortile (càni gàddhìni).
I porci trovati a gironzolare venivano “pàràti ed’àccumpàgnati nzìnu àra càsa dè patrùni, addhùnni, Zìu Francìscu i Jàpicu ed’ànni dòppu zìu Bìnìgnu i cantuni, ddhj fàciènu ù bìrbàli “.
Ciò perché in quegli stessi anni il Sindaco aveva emanato ordinanza con la quale, per ragioni di igiene e sicurezza pubblica, alcuni animali domestici dovevano essere collocati fuori dall’abitato, mentre per altri era vietata la libera circolazione.
Questo fatto divise il paese (e tì pàrìadi).
Vi erano coloro che condividevano il provvedimento, ma vi era anche chìni risìstìadi ppìcchì ghèra scòmudu jì àri zimmi tùtti ì juòrni e ppìchì s’èra sèmpi fàttu accùssì.
Il testo cui ho fatto riferimento e qui riportato fra virgolette nella versione integrale.

Aveva come titolo “L’ostracismo de’ porci”
”Il Calabrese nasce tra i porci e le porcelle. Questi, che insieme ai ghiri sono i soli animali privilegiati di avere attorno al corpo uno strato di grasso, sono in sommo pregio tra noi; e fu un frate calabrese colui che disse: “Se il porco avesse l’ali sarebbe simile all’angelo Gabriele”.
Perlustrate i nostri paesi; lasciate da parte i tre o quattro edifici di nobile apparenza; visitate l’uno, appo l’altro quei bugigattoli, dove stivate, pigiate, affumicate albergano le famiglie del popolo, e sempre e da pertutto il medesimo spettacolo di miseria attristerà gli occhi vostri.
A destra dell’uscio un asino che sgretola il suo fieno, poi un focolare senza fuoco e senza pentola con un gatto soriano accoccolato sulla cenere; poi di fronte una finestra priva di vetri e d’impannata, con orciuoli e scodelle sul davanzale; poi a sinistra un fetido pagliareccio, e sotto quel pagliareccio, che chiamasi letto, un truogo, e presso al truogo un porco, e razzolanti qua e cola galli, galline e pulcini, che beccano ciò che cade della bocca dell’asino, e la crusca rimasta appiastricciata sul grifo del porco; e quando il bimbo che sta sul letto vagisce, il porco grugnisce, il gatto miagola, l’asino raglia, la gallina schiamazza, e la donna di casa con la granata in mano strepita anche essa inseguendo il gallo, che svolazzando ha fracassato l’orciuolo, voi da quel baccano, da quel tramestio vi formerete l’idea dello inferno.
Ebbene! in questo inferno nasce l’infelice calabrese, che venuto ai venti anni piglia il mestiero del brigante, e finisce di vivere come l’animale, con cui fu educato.
Il porco in Calabria dorme sotto il letto, scorazza per le vie, si conduce a passeggiare per le piazze, spinge il grifo nei caffè, si ferma innanzi alle bettole per raccogliere le bucce di lupini e di castagne che gli buttano i bevitori, e quando bene gli pare entra in chiesa a sentire la predica.
Invano la polizia medica, invano l’igiene, invano la civiltà si provarono tra noi di mettere i porci cittadini al bando: i porci ebbero il loro giudizio, si posero sotto il patrocinio di S. Antonio, e furono amnistiati; e nel tempo medesimo il popolo protestò, e con ragione.
Si posero sotto il patrocinio di S. Antonio, e la cosa avvenne così.

  1. Antonio Abate ebbe a virtù speciale la purità; e per esprimere il suo amoroso fuoco verso Dio, e il calpestare che fece le oscene dilettanze del sensi, i primi pittori lo dipinsero con del fuoco in mano, e con un porco sotto i piedi.

Ora i frati diedero al volgo ad intendere che S. Antonio fosse in sua vita stato porcaro e perciò tenero protettore dei porci e della porcheria.

Che cosa pensasse in cielo S. Antonio al vedersi onorato da questo titolo, io non lo so: questo so bene che in Napoli, dove nessuno può tenere porci, i soli monaci Antoniani hanno il dritto di fare di notte passeggiare i loro, che sono trecento come gli eroi delle Termopile.
In Calabria i Cappuccini ed i Riformati facendo profitto della omonomia di S. Antonio Abate e di S. Antonio di Padova, attribuirono al Santo delle tredici grazie la protezione dei sordidi animali, che così, nonostante la polizia, trionfarono e in attestato di gratitudine alla protezione di S. Antonio aggiunsero nel loro testamento un codicillo a favore dei monaci, lasciando a questi una meta del loro capo, ed un pentolino di grasso.
Ecco perché, appressandosi la stagione del porcocidio, si veggono i nostri frati condursi da uscio ad uscio lasciando cinque pentolini di creta alla donna calabrese, che li bacia per devozione, ed al fraticello che torna indi a 15 giorni ne restituisce uno solo, ma pieno di strutto.
Togliere la cittadinanza ai porci non si può.
Dei nostri cento paesi, novantasette non ànno nè macelli, nè beccai; e se gli hanno, il villano è sì povero che deve rimettere al tempo del porcocidio il desiderio di mangiarsi un pò di carne fresca; e finchè quel tempo non viene, oh con che tenerezza non guarda il suo maialetto!

Memore del consiglio della mamma:
Fa di comprarti un porco d’ un carlino,
ma ſa ch’ei trovi poi lo truogo pieno, comprò nel mercato di Cosenza una porcellina corta e raccolta.
Poi ricordando l’adagio:
Gallina e porcello;
per lo becco pare bello, le raccolse di notte bucce di cetriuoli e di cocomeri.
Poi udì il proverbio:
A chi porco non ha la sorte è ria;
Ei vede la salciccia e la desia il poveraccio cacciandole il mignolo nell’orecchio e grattandola le disse:
Ingrassa, ingrassa!
Quando muori, qual piede mi lassi ? ed andò in estasi quando l’animale stendendosi per terra, e sprangandogli un piccolo ed amoroso calcio parve rispondergli: Ti lascio questo pregiutto.
Ascoltò la canzone:
Val meglio crescer porci, e non figliuoli,
Chè uccidi il porco e ‘l muso ti consoli, e visto il figlio a mangiarsi un pugno di castagne, gliele tolse, e buttolle alla bestia.
Una sera la moglie gli disse: Titta, essa è randagia; ed ei per levarle il vezzo di dilungarsi dall’abitato fe questo incantesimo. Le tagliò un fuscello sulla lunghezza della coda, le svelse sette setole dal collo, e setole e fuscello nascose sotto il truogo.
Poi la bestia infermò, ed ei fu piangendo dal più vecchio vicino, ch’Esculapio dei porci si tolse di tasca con un fare solenne una lesina ed una radice di elleboro, erba che noi diciamo radicchia, e fatto un foro nell’orecchio della porcella vi cacciò dentro l’elleboro pronunziando a voce sommessa:
Radicchia beneditta,
Nterra sei nata, ma in Cielo sei scritta:
Mò ti voglio arradicchiari
Dentro trecento sessantasei mali.
Poi la bestia guarì; ed indi ad un mese avendo Marta detto a Titta: Essa è pregna, marito e moglie entrarono nella Chiesa dei Cappuccini, e pregarono così :
Madonna nia,
Fanomi ſigliar la frisinghella mia,
E sanamente,
Felicemente
Partorisse sette porcelli,
Quattro chirilli, e tre frisinghelle;
E a dispetto del demonio,
Uno intendo portarne a San Antonio.

È favola questa? No: è storia, la qual prova che la miseria è madre della superstizione e dell’ignoranza.
Ma notate bellezza di vocaboli! Chirillo, voce greca, significa porcellino, e frisinghella (degna di entrare nella Crusca, che manca di parola equivalente) si dice alla femmina del porco, che, o è tale da non essere pregna, o è pregna per la prima volta.
Pigliati nu purciellu è nu carrinu,
e falli akkiari u sciſiticllu chinu.
Gallina e purciellu,
pè lu pizzu pari biellu.
Amaru chi lu puorcu nun si ammazza,
cà i bidi e li disiddera i sazizzi.
Miegliu è crisciari u puorcu ca nu figliu,
puru l’ammazzi, e ti nnunti lu mussu.
Or se le frisinghelle son degne d’entrare nell’Accademia della Crusca, perchè dovrebbero espellersi dai nostri paesi?
Tra noi l’uomo del popolo, a rompersi tutto il di l’arco della schiena, è molto se guadagna una lira, e la sua donna 25 centesimi; e stante questa spaventevole miseria, effetto di mancanza di lavoro e di arti, unica industria a quei disgraziati è d’allevare un porco, prendersi dal benestante la frisinghella, e con esso dividerne i frutti; e non è certo un bel garbo pei nostri Sindaci dai calzoni di segovia, e dagli stivaletti di vitellino incerato, fare un diavoleto addosso a porci a nome della nettezza del paese.
Si pensi prima alla nettezza, e pulitezza di vestire degli abitanti, e poi quella del paese verrà da se. Ora come ora il nostro popolo non ha calzoni tali, a cui sia danno irreparabile una zaffata di pillacchera che vi schizzi il porco dal suo brago.
Esso è stracciato, cencioso e scalzo come un Apostolo, cencioso e scalzo come Sant’Antonio, e se somiglia a Sant’Antonio, gli si lascino i suoi porci.
Chi dando a questi l’ostracismo crede di consultare alla nettezza dell’abitato sconosce la Calabria. Sul rompere dell’alba d’un giorno estivo mettetevi per entro alle viuzze dei nostri meschini paesi, e ditemi un po’, che vedete?
Su gli usci a destra ed a sinistra, mentre le stelle tramontano, e ‘l cielo arrossisce vi verranno agli occhi stupefatti delle figure bianche. Paiono una, due, tre lune cadute dal firmamento e non son lune; spettri avvolti in lenzuola di neve, e non sono spettri.
Fate che meditino un incantesimo, e non son Fate. Che sono dunque?
Son donne. Saltarono nude dal letto, si chiamarono dietro il porcello, e fanno (Signorine, perdonate!) e fanno le occorrenze accanto all’uscio di casa!
Or quando i nostri Comuni mancano di chiaviche e fogne, e barbieri, sarti, calzolai, e muratori, pria di mettersi al lavoro, si dispongono in fila, a giorno fatto, verso le ultime case del paese, e li con la pipa in bocca, e con la gravità filosofica dei Cinici fanno ciò che il Galateo vieta di nominare, non è un’impertinenza bandire l’ostracismo ai porci, che, fogne e chiaviche animate, lungi dal creare immondezze, le distruggono?
Noi vorremmo che in ciascuno Comune si costruisse una Cloaca massima da un capo altro del paese; poi si obbligassero i proprietarii delle case a costruire a spese loro altrettanti condotti, che mettessero in quella, ed insieme non si lasciasse che altri fabbrichi un novello edifizio senza fornirlo di fogna.
Fatte le fogne di pietra, cessa la necessità delle fogne vive, che sono i porci; e allora i padroni o dovrebbero tenerli legati in casa, o associarli sotto la guardia di un uomo, che di giorno li menerebbe a pascere in contado, come si fa in Svizzera delle vacche.
Ma finché questi provvedimenti non saranno presi, noi non toglieremo al nostro misero popolo l’industria dei porci, ci oppor remo al loro Ostracismo, e ripeteremo col Monaco: Se il porco avesse l’ali, sarebbe un Angelo Gabriele.

Stavòta stàju cìttu, ònn’appuòvu nnè jùdicu, làssu à paròla à chìni ancùna còsa à vò ddhì .

Giugno 2019

Minùcciu

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