Abbitìnu

Luigi Bisignani

Ci sono tante,tantissime storie e usanze che non conosciamo del nostro paese,
Grazie al nostro amico Minucciu,possiamo scoprire e conoscere meglio il nostro paese,
conosci tu qualcosa sull’Abbitinu?

‘Abbitìnu.

‘A quìri quàttru pàisàni chì mì lèggìnu, vulèra sàpi sì s’àmmèntanu cchì gghè n‘àbbitìnu, sì ‘nnànu mài pùrtatu ‘ncuòddhu gùnu o s’àncùnu ddhà mài cùntàtu cchj bbùlìa dì e cchì ssì pùrtàvadi à ffà.

L’oggetto ti cui stiamo parlando, fino agli anni cinquanta del secolo scorso, era così diffuso e radicato nella tradizione sandonatese, da far dimenticare la sua origine pagana e superstiziosa, fino a trasformarlo in vero e proprio oggetto di culto, il tanto da indurre taluno a pretenderne regolare benedizione.

In altra ricerca ho sostenuto che l’àbbitìnu della tradizione sandonatese, era un pezzo di stoffa cucito a “sacchetto”, all’interno del quale, secondo necessità ed orientamento personale, era inserita una immagine sacra, una invocazione od una preghiera.

L’usanza prevedeva venisse indossato à cuddhàru (legato ad un laccetto e portato a mò di collana), oppure à pèddhj (ai neonati veniva attaccato con una spilla nella parte interna dò jìppùni, ai grandicelli ed agli adulti ntà màglia ì sùtta, a contatto con la pelle).

Si riteneva un rimedio contro sortilegi e malie orditi da gente cattiva, invidiosa o maligna e capace di sprigionare fluidi malefici, quali màluòcchju, àffascinu, fàttùra, màgaria e gàti còsi malamènti, in grado di causare danno a persone, animali o cose.

L’uso degli amuleti (fra i quali rientra a pieno titolo l’àbitìnu) è antichissimo ed è nato quando l’essere umano volle trovare spiegazioni al verificarsi dei fenomeni naturali, del ciclo vitale nella natura e sulle cause delle altre avversità, quali carestie, sfortuna, malattie, morte, alle quali l’uomo era soggetto.

Non avendo strumenti sufficienti l’antenato sviluppò il concetto di una entità superiore alla quale attribuire il potere di  originare e sovrintendere gli accadimenti in natura, i destini e le umane vicende, da temere e riverire, onorare e blandire, per tentare di affievolirne l’ira ed invocarne i favori, questo attraverso riverenza, preghiera, riti ed offerte sacrificali.

E’ da tener presente che le sventure o le malie più temute dalle antiche popolazioni delle nostre terre, erano sfùrtùna e màlasalùti, “caratteristiche invalidanti” in  gruppi umani nomadi, dediti alla raccolta, alla caccia, all’allevamento ed alla guerriglia di rapina, attività che richiedevano abilità e vigore fisico, quindi requisiti indispensabili e necessari per la sopravvivenza individuale e della tribù.

In quei tempo il non possedere vigoria e l’essere sfortunato condannava ad una vita grama ed alla povertà, entrambe condizioni nelle quali potevano svilupparsi e radicarsi sentimenti di invidia, rancore, inimicizia, per cui, chi ne era colpito, era ritenuto non gradito dalla divinità e condannato a restare isolato e reietto.

Era (e presumo ancora sia) credenza comune che lo sfortunato (in sandonatese ù sìnghàtu) non godesse la protezione delle divinità  e veniva  a far parte di un gruppo eterogeneo che includeva quìri c’ònnu pùssidiènu (in questo caso la povertà di beni non centra nulla, il possesso era riferito a fortuna ed integrità fisica).

Storicamente non è collocabile, ma ci fu l’epoca in cui nacque e prese corpo l’idea dei guasti che poteva provocare l’influsso negativo che ù singhàtu poteva emanare ed effondere per cui sorse il problema di come ovviare per eludere le sue attenzioni, volontarie o meno e le conseguenze che ne potevano derivare.

I nostri antichi progenitori rivolsero il pensiero a quegli oggetti e sostanze che, personificando la forza e la magia, potevano contrastare qualsiasi azione malefica e nacque così la cultura degli amuleti.

Nell’evolversi della situazione, ci fu sicuramente qualche furbacchione che, studiata la faccenda, approfittò delle circostanze e si elevò al rango di tramite fra il divino e l’umano, elevandosi a “magis” (sapiente nella lingua persiana antica)  quindi di ruolo e posizione superiore, ma anche “mago” (dalla stessa radice da cui origina magister, maestro), da cui i termini sandonatesi, “màgu e màgàra”.

Fatta “a volo d’uccello” la storia delle superstizioni, torniamo a noi per precisare che l’àbitìnu, nelle terre sandonatesi, anticamente consisteva in piccole pietre colorate (tratte nei letti dei torrenti od all’interno degli scavi minerari), denti di animali selvatici (meglio se uccisi da uno di famiglia), frammenti di ossa (di fiere ma erano preferiti quelli di un nemico ucciso in battaglia), ciuffi di erbe medicinali e vari oggetti ai quali si attribuivano poteri salvifici (reliquie ed altri oggetti ritenuti sacri).

La memoria paesana tramandava le virtù magico-terapeutiche di alcune erbe (es. màliva, ghèrivàmàra, vùrdìca, spàrtu, jùnciu, cicòria, ghèriva ì vièntu) e di taluni animali.

Pp’èsèmpiu, màngià càrni ì pàlùmma òn ti fàcìa àffènni dè vièrmi e nòn tì fàcìa ‘mmìschà màlàtij chj mpìstavànu; ù gràssu ì pàpàra ccù mèli fàcìa sanà ù mùzzicu dò càni àrraggiàtu; gnùtti ttrì jùri ì grànàta òn ti fàcìa pàti l’uòcchj.

Scaramantica era l’èriva sànta (la verbena) e virtù magiche possedevano ali e piedi di taluni rapaci (es. nìcchju, crìstarièddhu) e di uccelli comuni (cuòrivu, pìca) , la pelle di alcuni rettili (es. sàittùni, cùda  ì sùrìgghja) e vari insetti (es. ù vòmmacu, à sàntalucìa) ed erano molto usati anche rami d’ulivo e grani d’incenso benedetti la domenica delle Palme ed impiegati ppì fà fumiènti cùntra malìa e àffàscinu.

E nònni scurdàmu, ppì cùntraffàscinu, i ttrì nòcchi ì sìta, lìgàti àra vèsta dò vàttìsimu o n’àbitìnu con tre foglioline di palma benedetta, tre pezzettini di cera d’altare, tre grani d’incenso e tre di sale.
Altri amuleti erano  àbitìni con cristalli di salgemma; il cuoricino di pezza contenente incenso, sale e fronde d’ulivo che veniva appeso al collo dei bambini e degli animali; le monete fuori corso da tenere sempre in tasca; un fiocco di lana di diversi colori legato ad un laccetto e portato al collo.

Erano altresì usati, una pezza di colore nero (quale benda per coprire sguardi malvagi), le corna (accecavano gli influssi maligni), il ferro di cavallo (faceva girare a vuoto la malia)

Nel XVI secolo, nel sandonatese, per tenere lontano gli spiriti e il malocchio, quale amuleto si teneva in tasca nà chiàvi màsculìna (chiave non bucata), pìnniènti o ànièddhu fàtti à nà pòsta ì fièrru ì càvàddhu (meglio se della zampa posteriore destra), nù dènti ì cignàli ò dì lùpu (meglio se di parte sinistra), nù màzzarièddhu ì pìlu dà cùda ì nà vùrpa; n’uòcchju ì sàli (pezzetino di salgemma con impurità);nù cuòrnu ì lìnnu ì cièvuzu.

Quando si produceva la seta, a protezione dè sìrichi, e per evitare ù màluòcchju,  ai cannicci venivano legati dei gusci d’uovo legati con uno spago.

Chjni fràvicàvadi nà càsa nòva, fòra mùru fàcìa mìnti  nù fièrru ì ciùccia e sùpa l’àrchitràvu nà parcatùra ì còrna dò vòj.

Aspetto rurale e arcaico di alcune zone era la  màgarìa, avvertita nel mondo contadino calabrese specie durante le festività cattoliche, là dove la fede cristiana si sovrapponeva a forme rituali antiche da tramandare. La notte di Natale era la notte della magia ed anche il momento in cui ì màgàri trasferivano le parole delle formule magiche (quàsi sèmpi quìri dò cùntràffascinu), alle generazioni successive.

Ed a proposito di màgàrij, fra gli strumenti usati per confezionare malie figuravano (oltre ad ossa e teschi di alcuni animali), chiodi e saliva, quest’ultima considerata molto importante.

Sputare tre volte in terra, ripetendo uno scongiuro, era un modo per ostacolare malocchio ed altre malie. Molti  amuleti magici, legati al collo dei bambini, erano pìnniènti costituiti da piccole pietre forate, scaglie di salgemma, chiavi d’argento

L’uso scaramantico del chiodo di ferro risale ai tempi dell’antica Roma, dove gli veniva attribuito il potere di tutela, stipando su di sé malattie e cattive influenze.

Coll’affermarsi del cristianesimo il chiodo divenne, sia oggetto di maledizione (aveva causato la morte di Cristo), sia oggetto di benedizione (morendo il Cristo aveva salvato l’umanità).

Una diffusa credenza popolare affermava che il demonio utilizzasse il chiodo per tramutarsi e manifestarsi, ciò perché nel corso di pratiche di esorcismo, pare che spesso gli indemoniati, all’atto della liberazione dallo spirito maligno, vomitassero chiodi.

Le proprietà magiche del chiodo (nel nostro paese à pòsta, chiodo di forma particolare usato dai maniscalchi per fissare i ferri equini) sono legate ad un costume conosciuto, praticato e diffuso in Calabria fra pastori e contadini, fra i quali era uso appendere al collo degli animali, à sùnagghjèra e nnù chjuòvu cùnzàtu à nà magàra e ppì quìssu càpàci ì nòn fà vinì màluòcchju.

Fin qui i ricordi, legati anche alla circostanza che anch’io ho avuto il mio àbitìnu e che, con dispiacere di mia madre, non gli ho mai attribuito molta importanza,….seppur lo conservi ancora in uno scomparto del portafogli.

Tìnùtu cùntu ch’èju pàssàtu a sìttantìna e cà cchjù ddì nà vòta gàju àrrisicàtu ì cuòrij, puòzzu dì cà m’è gghjùta bbòna, gàju avùtu fùrtùna.

E nòmm’àddummannàti sì ‘ntà shjòrta chì ‘nsìnàmmò m’àssistùtu, ssàbbitinu cciàvùtu pàrti ò nòni.

Onnusàcciu, nnè ccè mànèra dò sàpi.

Minucciu : Aprile 2018

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