Stuòzzi ì stòria: A’ galèra.

Luigi Bisignani

Ricevo da Minucciu e con piacere pubblico

CULTURA

 

 

Dìcìanu cà ù càrciri….. è galèra;

à mmìa è parùtu…. fìssiatùra”.

cultura-sandonatese.jpgLa strofa iniziale di questa antico componimento popolare calabrese, zìu Ntoniu l’aveva cantata nel corso della prima nottata trascorsa da uomo libero e l’aveva fatto “ntà vanèddha cchjù bbicìna àra càsa ì Fìlicèddha”, “vècchja zìta” alla quale attribuiva la “responsabilità morale” per i  vent’anni di galera che aveva dovuto soffrire.

E si che in gioventù si erano voluti bene ed erano stati prossimi al matrimonio. Poi era successo quel che spesso  accadeva, “quànnu dùi zìti fànu quìri c’òn pònu sòn marìtu e mugghjèri” e Ntònijèddhu, dopo aver “ncignàtu à zìta”, aveva accusato dubbi ed aveva avuto un ripensamento.

Dopo lunga ed approfondita riflessione sul fatto che Fìlicèddha gli si era concessa, che si era mostrata debole ed aveva ceduto alle sue insistente, che s’era mostrata troppo ingenua ed aveva creduto alle solenni promesse, gli venne di pensare che “s’avìa fàttu nà vòta…….” e da questo modo di vedere la faccenda, aveva tratto debite conclusioni.

Ntòniu “s’èra rrìfriddhàtu”, aveva diradato le visite e chiaramente mostrato segni di insofferenza. Filicèddha che ingenua non era aveva capito l’evolversi della situazione ed a qualche screzio  erano seguite liti e reciproche accuse e la faccenda si era chiusa con la rottura del fidanzamento.

La bufera si scatenò quando, “quìru c’ònn’àvièddha mài accàdi” venne a conoscenza del parentato di entrambi. Ci furono da entrambe le parti dei tentativi di riconciliazione, tutti andati a vuoto per via della ostinazione “zìti” a non voler perdonare le reciproche e sanguinose offese, scambiatesi nel corso delle litigate conseguenti i ripensamenti “ì Ntònijèddhu.

Finì come all’epoca spesso finivano storie similari. Ntònijèddhu venne “pàliàtu e cùrtiddhjàtu” un paio di volte. “Dòpp’à sicùnna àmmàsunatùra”, gàrmàtu i scuppètta, à matìna prièstu, s’èra mmìsu ì càntu” nei pressi dell’abitazione della ragazza ed appena la porta s’è aperta, aveva scaricato l’arma, “àmmazzànnu ù suòcru e struppiànnu  ccà zuppìa ù cànatu ghhjù ggrànni”.

S’èra gghjùtu à prìsintà; dòppu chì s’èra piàtu a cùrpa, sàpiàdi c’àspittàvadi à vìachjàntu, à fà , ‘nfàcci a tùttu ù paìsi, ccù pùzi ligàti e chjòppa àru cuoddhu”.

In quell’epoca si trattava di attraversare in ceppi, tutto l’abitato di San Donato, “à Sàntu Cristòfaru (dove erano ubicati gli uffici della Guardia Nazionale), nsìnu àru càrciri dà tèrra”.

La strofa che abbiamo posto all’inizio di questo racconto, zìu Ntòniu la intonava spesso dal fondo della sua bottega (nghàlèra avìa mpàràtu à ffà ù scàrpàru), specie quando aveva sentore che in transito o nei pressi vi fosse Fìlicèddha o qualcuno dei suoi parenti.

Cantandola, “ù gàliuòtu (i sandonatesi gli avevano dato questo soprannome), voleva palesare, sia la sua forza d’animo che gli aveva fatto superare i patimenti della galera, sia la rabbia, il risentimento ed il malanimo, che lo attanagliavano. Erano i sentimenti tipici di chi era stato trattato senza misericordia ed aveva sofferto il carcere, “qquìri tièmpisinghàvadi”. A causa delle dure condizioni di vita (cibo scarso e di cattiva qualità, condizioni igieniche inadeguate, sporcizia, “pidùcchj, pìnici”, insetti vari ed assistenza medica insufficiente), dalla galera zìu Ntòniu ne era uscito incattivito “e ccà màlasalùti”.

Questa antica vicenda paesana mi è parso ottimo motivo e spunto, per una breve ricerca sul carcere, istituzione che, per sommi capi ho analizzato nell’evoluzione storica, ricostruendo tempi e circostanze della sua istituzione.

Ritengo utile premettere che il termine sandonatese “càrciru”, secondo alcuni studiosi deriverebbe dal latino coercere (costringere), mentre per altri linguisti avrebbe origini dall’aramaico carcar (tumulare, sotterrare), ciò riferito all’antica usanza nei popoli mediorientali, di trattenere i prigionieri in locali sotterranei (pozzi, cisterne, grotte ed anfratti verticali). E’ da precisare che detto metodo di detenzione non è stata una esclusiva dei popoli antichi. Venne ripristinato in epoca medievale (quando i locali di detenzione sotterranea erano definiti “segrete”) rimanendo in uso fino a circa la metà dell’800.

Altra interpretazione fa derivare il termine “carcer” da recinto, staccionata, luogo dove venivano rinchiusi i cavalli.

La parola “galèra” deriva invece dal tipo di pena inflitta (dall’antichità e fino al XVIII secolo), al recluso condannato a remare nelle galee (o galere), tipo di imbarcazione di iniziale uso militare spinta da remi.

Assolti gli obblighi etimologico-linguistici, possiamo affermare che, con le prime forme di convivenza, nacque anche la “prigione” quale sistema per allontanare dalla vita attiva ed isolare quei soggetti considerati nocivi per la comunità. La reclusione era anche un esercizio del “potere”, riservato ed esclusivo di quella componente sociale che, in epoche più o meno antiche, avocava a se la facoltà di stabilire le sanzioni per i trasgressori delle regole.

A questi “principi” non era estranea l’antica consuetudine di considerare il potere “emanazione divina” perché, sin dagli inizi della storia umana, l’esercizio di esso venne affidato ai responsabili della cosa pubblica, i quali stabilirono che ogni trasgressione era da ritenersi un’offesa arrecata alle divinità. Questo permise l’adozione di durissimi sistemi di costrizione, le cui antiche testimonianze ci descrivono prigioni ricavate nelle profondità della terra.

Le prigioni vere e proprie, intese come edifici-luoghi deputati a quella specifica destinazione, probabilmente vennero create con i primi nuclei abitati e di questo troviamo notizia nella bibbia e nella storiografia greca e romana.

Presso i popoli antichi ed anche preso greci e romani, le prigioni erano di modeste dimensioni (sovente una specie di vestibolo)  ed i reclusi avevano raramente la possibilità di ricevere visite. Spesso ricevevano gli emissari della vittima, con i quali si poteva concordare  e versare un risarcimento che mitigava la pena ed in taluni casi la annullava.

Nella Grecia antica, i minori traviati venivano rinchiusi nel “sofronistero”,  mentre gli adulti venivano  incarcerati nel “pritaneo” (Socrate vi restò 30 giorni prima di ingerire la cicuta). In quel tempo la pena era intesa come vendetta sociale, mirando gli ordinamenti penali ad “annullare” il colpevole di un reato e la rieducazione non era prevista.

Quindi, in tempi antichi, il carcere era sostanzialmente concepito come luogo atto alla custodia del reo, in attesa di sottoporlo alla pena prevista per il crimine commesso.

La “punizione” spaziava dalla pena corporale (fustigazione, mutilazione, tortura, morte, ecc.), a quella pecuniaria (risarcimento fino confisca di parte o tutti i beni del reo).

Le prime prigioni romane furono scavate nel tufo del “colle Capitolino” e vennero chiamate “Latomie”.  Il carcere romano, nei primi tempi della istituzione, non si discostò molto dalla finalità di vendetta sociale. Era il luogo di negazione e di soprusi di ogni genere, nonché di atrocità, offese all’onore, alla dignità umana, tanto da attrarre le attenzioni della nascente religione cristiana dai cui ambienti giunsero le prime timide richieste di umanizzare la pena.

Abbiamo visto quali erano le finalità del carcere nei tempi antichi. Anche nei territori soggetti all’autorità di Roma la detenzione ebbe inizialmente un carattere sussidiario e di secondo piano. Per lungo tempo la pena detentiva non ebbe una specifica regolamentazione, perché l’interesse comune era la vendetta che, secondo i casi, esigeva, o la morte del reo, o la sua riduzione in schiavitù, o la sottoposizione a mutilazioni ed altre pene corporali e solo nei casi meno gravi, avveniva la composizione in natura o in denaro.

L’imputato ed il condannato, erano considerati nemici della società e non veniva accettata l’idea che fossero mantenuti con pubblico danaro. Nonostante questo comune sentire, funzionarono le prigioni dove venivano rinchiusi promiscuamente, uomini e donne, vecchi e bambini, imputati e condannati, prigionieri di guerra e delinquenti comuni.

Questi luoghi, avevano ambienti fetidi, bui, tetri, umidi, insomma posti dove l’uomo perdeva ogni caratteristica di creatura umana e dove spesso i prigionieri morivano in seguito a torture e supplizi, cui erano sottoposti e che venivano praticati per estorcere loro confessioni, ritrattazioni ed altro.

Il carcere romano (fosse una Latomia od un edificio), solitamente era formato da due distinti ambienti;  l’exterior (dove si potevano ricevere le visite); l’interior, (più interno e sottostante al primo, privo di luce e prevalentemente destinato alla custodia dei reclusi in attesa di esecuzione capitale).

Nell’età post-classica, con l’assorbimento della “coercitio publica” nell’ambito della legislazione di  repressione, la detenzione risultò regolamentata tra le pene, quale misura di polizia. Le prime sommarie regolamentazioni del carcere furono promosse da Costantino (con una sua ordinanza, prescrisse un trattamento più umano e la suddivisione dei prigionieri per sesso, l’alleggerimento delle catene e la possibilità di far uscire i detenuti nel corso della giornata in appositi spazi) e successivamente da Giustiniano.

Fu sotto quest’ultimo imperatore che la “coercitio corporale”, sostituì le pene criminali e patrimoniali per essere comminata quando i rei si trovavano nella condizione d’essere assolutamente incapaci di assolvere  alle loro obbligazioni.

continua….

Minùcciu

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