Stuòzzi ì stòria:‘A forgia.

Luigi Bisignani

Ricevo da Minucciu e con piacere pubblico

CULTURA

 

 

‘A forgia.

cultura-sandonatese.jpgIl  termine che fa da titolo a questa ricerca, nel linguaggio medievale antico non faceva riferimento alla bottega del fabbro (“ù fùrgiàru” in sandonatese), ma ad un impianto di fonderia vera e propria, la cui dimensione era variabile ed adeguata alla ricchezza delle vene minerali da cui veniva alimentata.

Nel nostro territorio, in tempi antichi,  la forgia non era un impianto fisso, ma seguiva l’itinere dei minatori e veniva ricostruito la dove erano ubicate le vene di metallo e preferibilmente nei pressi di fonti d’acqua. Col trascorrere dei secoli, questo “nomadismo degli impianti di fonderia”, era in parte determinato dalla particolare orografia delle nostre terre, prive della viabilità che avrebbe facilitato il trasporto dei materiali escavati e dai quali estrarre i minerali.

La ricerca dei metalli da noi ha radici arcaiche. Tradizione e storia la fanno risalire alle prime tribù di lingua osca, giunte sull’Appennino calabrese attorno all’XII° secolo a.c. Dette popolazioni, durante la migrazione, avevano affinato la ricerca e l’arte della lavorazione dei metalli, nel corso di contatti con le popolazioni stabili sugli altipiani dell’Anatolia, la cui eccellenza era rappresentata dalla lavorazioni a lamina (od a foglia) dei metalli “teneri” e dalla granulazione dell’oro.

San Donato di NineaSan Donato, nella letteratura è conosciuto come “conca dei metalli”, ciò per la diffusione e la facilità di reperimento di minerali di rame ed oro (in minore quantità ferro) oltre al sale ed alle argille ricche di sostante chimiche (ossidi, cloruri, solfuri).

Popoli antichi praticarono le prime escavazioni nelle terre sandonatesi, poi continuate, nei secoli, da tutte quelle genti, in transito o stanziali in Calabria (greci, romani, barbari, normanno-svevi, francesi, spagnoli), ognuna delle quali ha estratto e portato a casa propria le ricchezze del sottosuolo (e non soltanto quelle), lasciando le popolazioni locali “ncàmmìsa” (quando è andata bene), o “nculunùli” (come spesso è accaduto).

Per conformazione orografica e “giovinezza geologica”, il territorio sandonatese non ha le caratteristiche che ad altri territori hanno consentito di incorporare densi ed abbondanti giacimenti minerari. Pertanto, le escavazioni, più che su “giacimenti”, sono avvenute su “venature” di metalli insinuate in un sottosuolo calcareo e roccioso.

A questa “povertà” naturale, va aggiunto il millenario sfruttamento, il cui effetto ha ridotto ed in qualche caso esaurito le vene già per loro natura esigue e disperse sul territorio, caratteristica questa che ha indotto  il “nomadismo” degli impianti di fonderia, le “forge”, di cui abbiano detto.

Nonostante detti “aspetti negativi”, il territorio sandonatese, sin da tempi antichi è stato al centro dell’interesse di coloro che con l’estrazione e la lavorazione dei metalli ci campavano. Sulle miniere  dei tempi più antichi dobbiamo accontentarci degli scarsi accenni forniti da cronisti greci e romani. Notizie scarne le abbiamo sul periodo delle invasioni barbare. A partire dalla dominazione bizantina, alla quale nel tempo sono succedute le genti normanno-sveve e francesi, la documentazione ci fornisce notizie più dettagliate, specie a datare dal regno angioino nel XI secolo.

Agli inizi del XIV secolo, un documento menziona tale “Joannes Tallapane de Villa Basilice comitatus Lucani”(Villa Basilica, in provincia di Lucca), quale “magister” delle forge di San Donato e Mercurio.

Siamo nel periodo in cui la casa d’Angiò ha stabilizzato il proprio dominio sulle terre di quel che sarà il Regno di Napoli e la curia angioina, così come molte altre case regnanti europee, ha dovuto ricorrere ai “mutui” delle potenti famiglie di mercanti e banchieri toscani ai quali ha poi ceduto il godimento di attività economiche, vuoi sfruttamento delle risorse, quali boschi e miniere, appalti su tasse e gabelle, signorie (fra le molte, quella dei Tonti, feudatari di San Donato).

Le famiglie toscane con interessi nel regno del sud, come sovente accadeva, avevano inviato sul posto loro agenti i quali s’erano attivati per richiamare quelle figure professionali non reperibili in loco ed alle quali assegnare la gestione delle attività di reddito (taglio e lavorazione del legname, ricerche minerarie, escavazioni e gestione delle fonderie). Il citato Tallapane di Lucca era una di queste figure e non sarà l’unica perché, in quegli anni, la Calabria venne letteralmente invasa da manodopera toscana, proveniente da Pistoia (per le attività estrattive e boschive) e dal contado di Lucca (per la metallurgia).

L’impiego di detta manodopera “stràina” aveva come scopo principale la “modernizzazione”  della tecnica di estrazione e lavorazione dei metalli, che la curia angioina, per come era stata condotta nei tempi precedenti, riteneva arretrata e poco remunerativa anche sotto l’aspetto fiscale (dal quale, per inciso, lo Stato non trasse mai vantaggi notevoli). Ciò non toglie che anche prima dell’arrivo dei “toscani”, la “scarsa” attività mineraria era in atto ed una qualche forma di utile riusciva ad assicurarlo (citiamo l’imposizione delle decime sul prodotto finito e l’obbligo della cessione ai magazzini della  curia), anche in presenza di oggettive e numerose difficoltà e delle inevitabili frodi.

Fin dai tempi di Carlo I, il territorio del regno (specialmente la Calabria), vide la presenza di imprenditori, tanto temerari quanto rapaci, che “tormentarono” la regione con l’accordo ed il cointeresse della Corte. Nel 1274, in Longobucco viene scavata una vena d’argento e la Curia ne trae subito profitto. Nel 1274, si scava nei dintorni di Reggio Calabria, e il re si riserva la terza parte delle risorse (ferro, argento e piombo) che quelle miniere potranno dare.

Intorno agli stessi anni si ha notizia di qualche attività nel giustizierato della Valle di Crati, zona amministrativa che incorporava anche le terre di San Donato.

Sulla presenza toscana in terra calabrese annota Romolo Maggese (v. indice): “Ma è sotto il regno di Roberto che, per effetto specialmente della forte immigrazione di capitali e di speculatori toscani, la industria estrattiva acquista qualche consistenza ed offre argomento di qualche speranza all’erario ed al Re”.

 

…..continua…….

Minùcciu

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1 commento

    • Giovanni Benincasa il 22 Febbraio 2016 alle 15 h 58 min
    • Rispondi

    Come sempre grazie caro Minucciu.

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