A’ lìgnàma ì Sàntudunàtu

Luigi Bisignani : ho ricevuto da Minucciu  e pubblico

cultura-sandonatese_thumb.jpgNegli anni ’70 durante la permanenza nella capitale, ho notato che il paese dove sono nato è citato nella toponomastica romana, dove una strada urbana è stata dedicata a San Donato di Ninea. La via è ubicata in un settore del sistema viario di Ciampino, all’interno del quale, oltre a San Donato, altre  strade sono intestate a paesi della Calabria, cito a caso Verbicaro, Scigliano, Papasidero, Aiello Calabro ed altri. 

Scoperta recente è invece che “un pezzo di San Donato”, all’inizio del XIV secolo venne asportato ed impiantato all’interno della Basilica di San Giovanni in Laterano, ove rimase per altro mezzo secolo, quando un incendio dovrebbe averlo distrutto.

La faccenda ha una certa importanza, perché importante è la chiesa di cui parliamo. Li era incardinato il vescovo di Roma, quindi stiamo ragionando della “casa del papa”. Il complesso sorge sulle rovine della “casa dei Laterani”, antica famiglia romana che possedette il palazzo sino all’epoca del console Plauzio Laterano, poi ucciso perché coinvolto in una congiura contro Nerone.

In epoca successiva l’edificio ebbe il nome di “Domus Faustae” e sotto Costantino era proprietà imperiale.

L’epoca in cui “il Laterano” divenne chiesa cristiana ed abitazione del Papa non è certa. Nei primi anni del IV secolo, sugli edifici preesistenti, vennero realizzati i tre grandi monumenti che lo compongono (basilica, palazzo pontificio, battistero ed oratori annessi). La chiesa originaria non era di grande dimensione ed aveva stile severo a cinque navate sostenute da più file di colonne ed era dedicata al Cristo Salvatore, al cui nome, dopo il IV secolo, vennero aggiunti quelli del Battista e dell’Evangelista.

Splendida e ricca d’oro e di marmi, ad imitazione del palazzo dè Cesari, la basilica venne definita “aurea” per gli arricchimenti ad opera di Costantino. Si disse che nella basilica, assieme all’arca dell’alleanza, si conservassero le tavole della legge, il candelabro d’oro, il tabernacolo e le stesse vesti sacerdotali di Aronne.

Il primo gran danno subito da complesso lateranense, fu il saccheggio dei Vandali di Genserico, al quale rimediò S. Leone il grande, che provvide al restauro. Adriano I (771-795) ereditò una  struttura “decadente”, ed in tale stato si trovava quando salì al soglio Sergio III, che la riedificò tutta a nuovo (a. 904-911), serbando però le fondamenta e le dimensioni antiche. Sulle successive vicende della basilica, annota un cronista dell’epoca “La primitiva basilica era totalmente distrutta, cosicchè sembrava impossibile recondire l’edifizio sulle vestigia prisca. Questa ruina era accaduta l’anno 896, periodo nefasto in cui era ridotta un cumulo di sassi e la plebaglia di Roma andava frugando per quelle ruine e ne rubava gli ori e i doni, ed altri oggetti preziosissimi di arte”. Riedificata da Sergio, nella notte del 6 maggio dell’anno 1308 la basilica di nuovo rimaneva consumata da uno spaventoso incendio, e, caduto il tetto, le colonne furono spezzate e calcinate, ogni monumento ridotto in frantumi. Il papa era allora Clemente V, il quale s’accinse alla riedificazione del tempio, che però non fu compito sotto di lui, ma nel seguente pontificato; non trascorse mezzo secolo e nel 1360 un altro incendio consumò di nuovo il Laterano; Urbano V si diè allora a rifabbricarlo affidando l’opera all’architetto senese Giovanni Stefani. La basilica d’Urbano nulla più conservò di quella di Sergio”.

Ho riportato una piccola porzione di storia del Laterano, per collegarmi agli avvenimenti successivi all’incendio del 1308 ed allo svolgersi di vicende, collegate ad un edificio di tanta importanza e prestigio, nelle quali il nostro piccolo paese è stato coinvolto e si è ritagliato un ruolo da protagonista.

Le circostanze che narro sono tratte da documenti custoditi presso l’Archivio vaticano, resi di pubblico dominio  nel 2008 con la pubblicazione di alcuni “regesti”, dai quali si evince che, dopo l’incendio del 1308, le autorità vaticane rivolsero un appello a Carlo d’Angiò perché fosse loro concesso di tagliare il legname necessario per la ricostruzione del tetto della basilica.  Uno dei detti “rotulus”, reca a tergo, di mano del secolo XIV, l’annotazione: “questi sono lesenpi de tute karte ke fece fare vari lotti in kalabria” e raccoglie atti risalenti agli anni tra il 1309 ed il 1312, alcuni inediti, concernenti la fornitura delle travi occorrenti per allestire l’armatura del tetto della basilica lateranense, equipaggiamento concesso per interessamento di re Carlo II d’Angiò e di suo figlio Roberto.

Clemente V chiedeva il legname “in espiazione dei peccati” ossia gratis e la domanda fu accolta dal re angioino, il quale, autorizzò il taglio ed il trasporto dei tronchi, concedendo però la sola esenzione da gabelle e tasse dovute per l’attraversamento dei vari feudi, ricomprese quelle di imbarco, dato che il trasporto dei tronchi a Roma doveva avvenire via mare.

Fra i boschi della Calabria interessati al taglio, ve ne erano anche alcuni ubicati nel territorio sandonatese, il cui feudatario assieme agli abitanti rivolsero querele al sovrano perché i preposti al taglio, interpretando in maniera estensiva la concessione sul demanio regio, avevano invaso proprietà feudali e private, cagionando danni alle aree boschive.

Ma non anticipiamo i tempi e procediamo con ordine. Il Papa dell’epoca, Clemente V (e la sua curia) aveva sede in Avignone. Il pontefice conferì mandato al cardinale Giacomo Colonna perché curasse la ricostruzione della Basilica Lateranense, affiancandogli Giovanni Boccamazza e Francesco Napoleone Orsini, cardinali incaricati di sovrintendere ai lavori della ricostruzione.

Per il legname “ordinario” i porporati ebbero incarico di farne ricerca nei boschi della capitale ed in quelli vicini. Per le travi di “dimensioni adeguate” abbiamo visto che il Pontefice scrisse a Federico d’Aragona, re di Sicilia ed a Carlo II d’Angiò, re di Napoli, chiedendo loro di far ricercare nei propri boschi il legname necessario e di inviarlo a Roma.

La casa d’Angiò, per fede e per convenienza, avuta notizia del disastro (pare causato da un sacrestano di nazionalità francese, che si addormentò senza spegnere un focolare), stanziarono a favore della ricostruzione una cospicua somma di danaro (400 once in oro + 200 successive mutuate al sovrano angioino dalla società mercantile dei Bardi di Firenze).

Con successivo atto del novembre 1309 re Roberto informava il figlio Carlo, duca di Calabria e vicario nel regno, dei solleciti ricevuto dal cardinale Colonna, circa l’urgente necessità delle travi di copertura, da ricavarsi da alberi di alto fusto delle foreste calabresi, trasmettendogli un analitico elenco dei “pezzi” occorrenti e dei quali venivano indicate con precisione numero e dimensioni.

Per accelerare la fornitura, al funzionario responsabile dell’arsenale di Napoli, venne ordinato di mettere a disposizione due “uscieri” (galee aperte) per  il trasporto dalla Calabria delle grosse travi e dell’altro legname occorrente.

Nel 1310 Carlo II, su mandato del padre, ordinava a “giustizieri, secreti, maestri portolani, custodi della foreste e funzionari fiscali” della Calabria di disporre l’esenzione da qualsiasi tributo inerente il trasporto del legname alla volta di Roma. Raccomandava che i lavori di taglio e trasporto avvenissero senza alcun contrattempo e vietava ai preposti al taglio ed al dimensionamento delle travi, la vendita a terzi del legname destinato alla basilica.

Da questa circostanza se ne desume che, anche in quei tempi, vi era chi, intromettendosi nei contratti, speculava al rialzo del prezzo delle merci, legname compreso. Si poneva anche il problema della “sicurezza personale” il tanto che il sovrano richiedeva al giustiziere di Val di Crati e terra Giordana di proteggere i sovrintendenti ai lavori Lancia Pecorono, Giacomo Cuorezio e Tommaso di Pietro di Tomaso (agli stessi venne concesso di portare armi)  e di agevolare in ogni modo acquisto e trasporto del legname alle località costiere calabresi. Nella richiesta si precisava che per il trasporto via terra e fino ai porti erano incaricati dei preposti aiutati da numerosi operai e “factores”, più dieci buoi. Si comminava una multa di 50 once (o di importo superiore a discrezione del re), a coloro che avessero ostacolato lavori e trasporto e si imponeva ai funzionari regi di non chiedere a Lancia Pecorono, Tommaso di Pietro di Tommaso da Roma, Vanni Lecti da Orvieto e Massucio da Palermo “cum suis famulis”,  pagamenti di pedaggi, plateatico o diritti per exiturare o dohanae.

Dicembre  2015  Minucciu

……continua…..

 

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1 commento

    • giovanni il 11 Gennaio 2016 alle 15 h 26 min
    • Rispondi

    Splendido, caro Minucciu. Cordialità

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