Cùmu ghèramu :I’ fèsti.

Luigi Bisignani 

ho ricevuto nel 2015  da Minucciu  e pubblico 

Ogni tanto una guardata nel tempo passato ci vuole e Minucciu con le sue ricerche” Cùmu ghèramu” ci fa fare uno sbalzo indietro per spiegarci come si vivevamo questi eventi festivi e soprattutto tramandare e far conoscere, alla nuova generazione ,usi ed usanze di un tempo passato.Profitto pure per augurarvi a tutti un felice mese di Dicembre .

I’ fèsti.

Molte erano le ricorrenze religiose festeggiate dai sandonatesi ed ognuna aveva il suo specifico nome  (Pàsca Madònna dò vìntiquàttru, Còrpusdòminu,  Sàntudunàtu, Madonna ì mènzagùstu). Queste le più importanti, seguite da altre, col tempo cadute in disuso, quali Mmàculàta, Sàntantòniu, Madònna dò Càrminu, Sàntàngiulu (à pascùni), Sàntvìtu (nuvèna) e le feste campestri in onore dà Madonna dè grazzij e di Sàntupiètru (dòppu mitùtu).

Tre sole ricorrenze erano note come “ì fèsti”, quelle che cadevano fra il 24 dicembre ed il 6 gennaio, ossia Sàntustèfanu e Natali, Càpudànnu e Pìfanìa (dìtti pròpiu àccussì).

Il ricordo “fèsti” che vorrei tramandare, non è solo quello vissuto dalla comunità sandonatese nel suo complesso. Il mio pensiero va a quella porzione di popolazione, priva di mezzi propri, che viveva l’approssimarsi delle feste con trepidazione. Vorrei ricordare e raccontare di quella gente che per condividere il clima natalizio e praticare il “rito pagano” frijtùra, doveva organizzarsi per tempo e darsi da  fare per procurarsi tutto quel che occorreva, per non sfigurare e predisporre il minimo sufficiente a trascorrere degnamente “ì fèsti”.

Mi riferisco al “popolo basso”, a coloro che non avevano avuto in sorte il nascere in famiglie abbienti, ai tanti che, per avere disponibile il minimo indispensabile, non potevano fare ricorso a provviste “stìpàti ntà càntìna ò ntè mènzanìli”, ma doveva attivarsi e “rìquèsta” al momento opportuno, in quel periodo in cui materiali necessari erano disponibili.

Oggi è del tutto facile rifornirsi. Supermercati e negozi offrono di tutto, l’indispensabile ed il superfluo. L’epoca alla quale mi riferisco, nel nostro paese circolava poca moneta da poter spendere negli altrettanti pochi negozi di alimentari. Rammento Fìrràru, àra crùcivia; Suòrici, àra chjàzzetta; Stràticò àra chiazza nova; Mùlinàru àra scìsa i quìri i gàpa, più altri due/tre con minore dotazione di merci.

Solo presso alcuni (Firràru, Suòrici) era possibile acquistare “ì diàvulièddhj”, quei granellini di zucchero colorato usati per decorare i dolci.

Il miele e l’olio che dovevano essere “paisàni”, così come la farina, da ottenere con grano obbligatoriamente macinato “àru mulìnu àdàcqua ì Jìruòscu (all’acqua scusa), òdàqquìru ì Sàràca  (ntà jùmàra)”.

L’apporvvigionamento iniziava con la mietitura, quando il bracciante, maschio o femmina (la differenza la faceva solo la paga mentre la fatica era ugualmente spartita) cercava “à jurnàta” e pattuiva il salario (si sceglieva il compenso parte in grano e parte in danaro).

Chi praticava la manovalanza generica (raccolta dei fasci di spighe e formatura e trasporto dei covoni presso l’aia), se donna, per ogni giornata di lavoro (alba-tramonto) guadagnava sulle 250 lire al giorno o grano a partire da “miènzu stuppièddhu”, un maschio circa il doppio, mentre al mietitore (soggetto a ferite mutilanti, perché la falce non perdonava errori o distrazioni), per consuetudine, spettava un terzo in più di paga rispetto al bracciante. Gli impossidenti e gli invalidi a vario titolo, non reclutati per la mietitura, “ciàmpata ì farina” potevano racimolarla fidando sull’elemosina “spìculià, ultima possibilità di raccolto legata alla benevolenza dei proprietari che permettevano di entrare “ntà càrmàta” e recuperare le poche spighe residue cadute da fasci e covoni.

Poi bisognava attivarsi per ottenere in concessione “nà partita ì castagni” da curare per poter a suo tempo raccoglierne i frutti dai quali trarre una buona rendita in danaro contante “vìnniènnu ì sèvuti fàtti all’àcqua”. A chi non poteva contare sulla “partita” non restava che andare a raccogliere castagne “à jùrnata” con condizioni retributive analoghe alla mietitura oppure “àra vìa, ossia andare a raccattare i frutti caduti sulle vie vicinali e lungo i cigli sino ai segnali di confine. La provvista aveva la sua importanza per via che la castagna era la base principale (con lo zucchero, il cacao, la cannella ed il liquore strega) nella preparazione della crema “ppì ghìnghj ì càssatèlli”.

Per il miele, necessario nella preparazione di “giurgiulena”, “ciccitieddhi” e “turdilluni” c’era da attivarsi e prenotarlo perché in paese non erano presenti arnie a sufficienza (clima troppo freddo), ma era più abbondante presso le frazioni della piana (Ficàra, Màciddhàru, Sàntulàzzaru, Mànchi, Arcumànu, Cùrticàru). I primi contatti su quantità e prezzi iniziavano in occasione della festa del patrono e si chiudevano, a Settembre-Ottobre, in occasione della festa di Sàntantoniu, e della omonima fiera del bestiame.

In dette occasioni, veniva pattuito ciò che in termini tecnico-commerciali possiamo definire opzioni, ossia il prezzo unitario, “à chìlu od’à pignàta”, da pagarsi alla consegna. Si stabilivano anche i termini del baratto “castàgni-mèli”, basati sul rapporto “tumminu-chilu (o pignàta)” e la faccenda interessava l’intera popolazione per via dello scarso affidamento sulla produzione “strettamente sandonatese”, per le note ragioni climatiche.

Dopo il miele c’era da pensare all’olio. Per la categoria sociale alla quale facciamo riferimento “à riquèsta” era possibile “jènnu àra jùrnàta à cogghj àvulìvi”. Significava che, da metà ottobre e fino a gennaio inoltrato, il bracciante chiamato per il lavoro (indifferente se uomo o donna), era obbligato a salire sulle piante, cogliere le olive a mano e per taluni tipi di “contratto”, “àri purtà, ncuòddu o ncàpu, fìnu àru tràppìtu”.

Pochi e capaci fortunati “fàciènu à stàggiùni ntò tràppìtu” al calduccio, ma lavoravano giorno e notte. Con la retribuzione i proprietari degli oliveti erano più larghi di manica rispetto altre prestazioni di natura agricola. Questo accadeva perché, secondo tradizione, il processo di raccolta, trasporto, molitura ed estrazione, doveva essere accompagnato da preghiere e benedizioni per via della tradizionale e riconosciuta antica sacralità dell’olio. La generosità nelle paghe era dettata dal timore che, eventuali maledizioni (jìstìmi) pronunciate da lavoratori mal pagati, potevano incidere sulla qualità dell’olio “guàstànnulu”. I raccoglitori potevano decidere fra la retribuzione in danaro oppure ricevere “quàrta d’uògghju à jùrnàta”; “ì tràppitàri”  generalmente preferivano la retribuzione a percentuale.

A questo punto ai materiali necessari per le preparazioni natalizie mancherebbe solo la legna minuta, ì fràscèddhj, necessaria per le fritture e che i sandonatesi hanno gia raccolto e “stipàta” durante i mesi estivi.

Non resta che rammentare “il clima” che precedeva “ì fèsti”. Era un periodo di ansiosa attesa per un avvenimento che rivestiva carattere  religioso-gastronomico-sociale, nel quale tutti volevano essere coinvolti e partecipi, ma alla pari, richiamando in proposito l’antico detto per il quale “ù sùli càvudìa tùtti, òn fà spari”. E proprio su questa filosofia si basava l’antica tradizione sandonatese “dò purtà”, quella arcaica usanza basata da secoli sulla condivisione, per la quale, non solo nel periodo natalizio, era uso destinare una porzione di derrate alimentari, dolci natalizi compresi, “àllànimiprìgatòriu” ed in loro memoria farne partecipi amici, parenti, “bricàti” e soprattutto le persone bisognose, quelle che per indisponibilità di mezzi, non avrebbero potuto trascorrere degnamente “ì fèsti”.

Da qui in avanti il racconto accomuna tutti i sandonatesi, perché il rito pagano “frijtùra” aveva regole e procedure condivise. Sul prodotto finito non vi era distinzione fra quello del ricco e quello del povero. Qualità e bontà dipendevano soltanto da abilità ed impegno di chi lo aveva preparato.

Il natale è per antonomasia la festa dei bambini. Fra i miei primi ricordi “fèsti”, vi è quello legato “àri crispeddhj”. Avevo circo 5 anni ed ero impaziente e tanto desideroso di affrettare i tempi di preparazione, da andare a spiare continuamente se e come l’impasto stesse crescendo, questo finché non venni severamente sgridato. Rimasi maluccio anche quando venni allontanato “fucùlàru”, dove mia madre governava la vampa “ppì ccì mìnti ù trìpanu e sùpa ù tìganu ccù l’uògghju ppì frij”.

Fui distratto ed attirato verso il tavolo dove frattanto era in corso la preparazione delle palline di pasta “ppì ciccitièddhi”. Volli partecipare e mi venne dato un pezzettino di pasta da modellare e che riconsegnai quando aveva perso il timido giallo dell’uovo ed acquisito un indefinibile colore bruniccio.  Devo a questo mio capolavoro la prima “mbùddha” sull’indice destro, procuratami nel tentativo di sottrarre “à ntò scùlapàsta” la mia pallina, fritta ma ancora bollente, che volevo assolutamente assaggiare.

Chi dei piccoli sandonatesi può negare d’aver furtivamente infilato il ditino “ntà scutèddha” con la crema di castagne per assaggiarla. Non rammento il sapore, ma il dolore dello sculaccione ancora si.

Queste iniziative mi costarono l’allontanamento dagli impasti successivi, specie da quello “crispeddhj”, per maneggiare il quale, volendo imitare mamma, mi ero “passàtu l’uògghju nsìnu àri gùviti.

Restai colpito ed affascinato dalla destrezza con la quale venivano stesi  “ciccitieddhj e giurgiulena” per farli raffreddare, ornarli e poi tagliarli in pezzi più piccoli.

Dei “tùrdilluni” rammento di averne rosicchiato la parte esterna ricoperta di miele e di averne “generosamente” offerto quel che restava a mia sorella.

La mia delizia erano “ì crispèddhj”. Divoravo sia quelle passate nello zucchero, sia quelle salate con le alici ed anche quelle imbottite con insaccati (preferivo la mortadella).

Passato Natale, si apprestava “càpudànnu”, ricorrenza che agli occhi e per gli interessi di un bambino contava poco, era una festa “ppì grànni” per la quale provavano poca attrattiva visto che il sonno quasi sempre li sottraeva alla festa.  Diciamo che come ricorrenza era poco sentita e scarsamente partecipata dal popolo basso, il quale aveva altre priorità. Taluno si accorgeva dell’arrivo del nuovo anno udendo le fucilate augurali dei pochi che potevano permettersi lo spreco di qualche cartuccia.

Pìfanìa” era la festa per i bambini. Nessun sandonatese, durante l’infanzia, ha mai trascurato d’appendere al frontone del caminetto la calza che nessun bambino, al mattino del 6 gennaio, ha trovata vuota. Il contenuto variava secondo le possibilità della famiglia, ma erano comuni il mandarino, le noci, le caramelle, il formaggino di cioccolato (in realtà era di surrogato, ma non aveva alcuna importanza), l’immancabile carbone (quello vero del focolare, mica zucchero cristallizzato) e per i più fortunati, un giocattolo.

E proprio sul giocattolo voglio soffermarmi per via che, “àri cchjù grànnicièddhj” (diciamo quelli in età scolare), la befana lasciava nella calza 100 lire, l’equivalente del prezzo di tanti giocattoli esposti sui banchi “dà fèra”. Si teneva una curiosa processione fra i banchi nel giorno della fiera. Erano i ragazzini sandonatesi che stringendo la moneta con una mano infilata in tasca, passavano e ripassavano fra i banchi, indecisi su come meglio spenderla. Volevano individuare, fra i tanti ed acquistare, un giocattolo che doveva loro piacere, doveva anche durare e sopratutto suscitare l’invidia dei compagni di gioco.

Che altro dire. Che le prossime feste vorrei dedicarle a quelli della mia generazione. Nonostante che età, trigliceridi e colesterolo consiglino prudenza, da nativo sandonatese, discendente dei bruzi bilingui, faccio mio il detto latino “Semel in anno licet insanire” e vi invito a festeggiare come si deve, all’antica. In caso di rimproveri o rilievi da parte di figli e parenti salutisti, rispondiamo che “nnìnni fricàmu”, (detto di sandonatese di felice ed antica memoria), continuiamo a degustare “ccù bbòna salùti , ricordando a tutti che non vale la pena di campar da malati per morire sani. Fatto questo  inviamoci un caloroso “tàntàgùrij, à tùtti”.

Dicembre 2015

Minùcciu

 

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1 commento

    • Giovanni Benincasa il 18 Dicembre 2015 alle 20 h 41 min
    • Rispondi

    Un piccolo aneddoto personale: Non ricordo la cifra che trovai la mattina quando ho guardato nella calza della befana. Sta di fatto che quella mattina di quel 6 gennaio da ragazzino di dieci undici anni, mi sono recato alla fiera e precisamente aru jardinu dove erano sistemati le baracche con i giocattoli. Li ho girate, le baracche dei giocattoli, e rigirate un’ infinità di volte ma niente ha soddisfatto le mie attese, tanto che alla fine sono tornato a casa con una pila di sei piatti fondi. L’unica cosa che ricordo al mio ritorno a casa, l’affacciarsi alla porta della buona anima di zia Antonia i ginuvisi, che mi chiese: Giuvà chi tà accattatu i piatti? T’asa spusa?. Caro Minucciu, ti Auguro buone Feste. Che sia un Magico Natale e un prospero anno nuovo per te e la tua famiglia. Auguroni!! Con stima e simpatia, Giovanni Benincasa.

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