Cùmu ghèramu: Viscògna.

Luigi Bisignani & Minucciu

cultura-sandonatese.jpgAveva trascorso quel pomeriggio di metà novembre, al chiuso delle stanze che si era riservato al pianterreno del “palazzo”, come era pretenziosamente definito l’edificio (due piani e seminterrato), proprietà ed orgoglio della famiglia che, “ntò paìsi avìadi pìsu e cuntìzzi”.

Non partecipò alla cena comune (circostanza frequente e sintomo palese di cruccio e malumore) ed in famiglia si chiesero se la causa della profonda irritazione del congiunto andasse cercata in una delle ricorrenti malefatte dei membri della numerosa parentela.

Don Peppe aveva ricevuto “la chiamata” e studiare in seminario era stata una scelta di fede. Al contrario dei figli cadetti (quelli che nelle famiglie di un certo rango sociale sono costretti al celibato od al sacerdozio), lui si sentiva “tagliato” per la tonaca, gradiva la vita religiosa e sin da bambino aveva deciso che avrebbe “fàttu ù prèviti”.

Non era costretto a campare con i proventi dei “legati” o dipendere dalla volontà del primogenito. Don Peppe era ricco di suo. Quanto a patrimonio, era pari se non superiore al fratello primogenito (colui che, in base alla legge sul maggiorascato, aveva ereditato l’intero patrimonio familiare, col quale doveva garantire a fratelli zii e zie, gli introiti di “legati” e lasciti testamentari).

La ricchezza del sacerdote derivava da donazioni e “legittime”, proventi di parenti, o da elargizioni e legati, “pro rimedio animae”, statuiti con l’usufrutto a vita.

Un sacerdote, è noto, non ha (o non dovrebbe avere, nella discendenza) eredi diretti. Per questo il vasto parentado sperava nelle disposizioni testamentarie verso i collaterali e si adoperava per non causare alcuna contrarietà al prete, nel timore che potesse, in qualsiasi momento, mutare i termini del testamento escludendone gli immeritevoli.

E di esclusi dal corposo patrimonio di don Peppe, fra i parenti se ne contavano già parecchi, per via dell’inclinazione dei componenti la famiglia a cacciarsi nei guai i quali con preoccupante frequenza.

Se don Peppe perdonava alcuni eccessi (nel parentado era usuale la prevaricazione e la superbia, perché un vasto patrimonio non si amministra con preghiere e non si conseguono utili senza qualche sopruso) e taluni vizi (abituale per donne, gioco ed ubriachezza), di contro pretendeva rigore nei rapporti umani, perché al buon nome del casato ci teneva eccome, specie ora che era “in pectore” per l’elevazione alla dignità di monsignore.

Era l’inclinazione al vizio nella sua parentela che lo aveva reso insofferente “àri pìzzicàti” dei suoi pari, i quali, si scambiavano “nsìnni”, colpi di gomito, sorrisetti, tutti sfottò dei quali riteneva responsabili gli eccessi dei suoi parenti e che, per buona pace, doveva fingere di non sentire e vedere.

Punto dolente erano le donne di servizio, “i sèrivi”, che per tradizione alloggiavano presso la casa padronale allo scopo d’essere a disposizione in qualsiasi momento.

Sembrava una nemesi. Ogni qualvolta un componente la famiglia scivolava nel letto “ì nà sèriva” questa ci restava incinta secca e, per evitare scandali, don Peppe obbligava i responsabili a riparare con rimesse consistenti (in soldi terreni o case, tutti cespiti sottratti dal patrimonio e dati in risarcimento).

Dopo l’ultimo scandalo, don Peppe volle porre rimedio al malaffare. Pretese ed ottenne che le donne per i servizi di casa le avrebbe scelte lui ed in breve ”ù pàlàzzu” si riempì di donne in menopausa (evitiamo rischi, pensò) oppure bruttarelle (ritenne che così si evitavano tentazioni) sebbene ai suoi parenti, “ppì ngriddhadi” bastava porli davanti ad un buco nel muro opportunamente “àdurnàtu ì pìla” e neanche esso l’avrebbe fatta franca.

Viscògna era una ragazza sui 15 anni, più alta della media, con una corporatura esile ed un fisico secco ed allampanato. Sembrava un palo vestito ed il soprannome glielo avevano procurato quelle leggere protuberanze, simili a “gàddharìzzi” poste a simulare “mìnni” e “grìmpi ì cùlu”.

Aveva capelli crespi nerissimi, un viso ovale e due occhi grandi e mobilissimi. Era la summa del “sessualmente meno appetibile” e don Peppe la volle a servizio in famiglia ed al suo in particolare. A questa ragazza il prete teneva molto e l’aveva voluta direttamente “sorvegliare” sin da bambina. Conoscendo l’ambiente familiare, aveva minacciato di maleficio e scomunica chiunque della famiglia avesse osato sfiorarla. A giustificare questa particolare forma di protezione verso Viscògna, vi era anche una ragione legata ad una “sbandata”, quando don Peppe, per la prima ed unica volta nella sua vita, s’era lasciato coinvolgere dai familiari in una sontuosa cena ed una solenne bevuta, tenute a coronamento di un ottimo affare. Per orgoglio aveva rifiutato d’essere accompagnato nelle sue stanze e “sbagliò”, sia stanza che letto, coricandosi con una delle serve, appunto la mamma di Viscogna.

Fu questa l’unica circostanza i cui “ù sànghu dà ràzza” prese il sopravvento “sùpa ù crièju” ed il peccato tocco anche don Peppe. Questo era l’unica macchia del vecchio sacerdote, il quale sapeva benissimo che il segreto non era rimasto tale per molto e qualcosa era comunque trapelato (pettegolezzi e malignità ma nessuna certezza). Il dubbio era dato dalla circostanza che, nel “frutto del peccato”, nessun parametro di somiglianza fisica corrispondeva alla fisionomia tipica della sua “razza”, cosa invece verificatasi in altri casi precedenti. La bruttezza di Viscogna, nell’occasione aveva funzionato da ottimo paravento per l’onorabilità del prete, anche se è notorio da sempre che, nel nostro paese, il segreto è una favola alla quale nessun sandonatese serio crede.

Il vecchio prete era particolarmente affezionato all’ultimo dei nipoti, un giovane che andava per i vent’anni e portava lo stesso nome dello zio prete, dato ché, come usava a quei tempi, “à rròbba vàdi àru nòmi”.

Pìppinièddhu studiava fuori ma trascorreva le vacanze in paese e qui teneva vive le tradizioni di cattiva condotta tipica nei giovani della sua famiglia.

Non aveva misericordia per le donne “chì ddhj vìniànu ì càntu” e non teneva in alcun conto età, avvenenza o condizione sociale. Leggenda paesana voleva che, in una nottata in cui “s’àvantàvadi ù nièrivu e rà fòrza c’àvìa ntà cudiceddha e dicìa ch’èra capàci ì jì ccù nnà fìmmina e ddì sìnni fricà dà pirùcca”, gli amici lo avevano sfidato a dimostrare quanto sosteneva ed avevano disegnato “nù ciùnnu ntùornu ù grupu dà porta ì nù catuòju e rù giovini, pùru sì s’èra spurlàtu tùttu ù mocci, aìa fàttu quìru chì cc’èra ddà fà

A metà novembre Viscògna accusò un malore ed il medico avvisò don Peppe che la sua pupilla era gravida. La ragazza confessò al vecchio prete che Pìppinièddhu, al termine dei festeggiamenti, nella ricorrenza del Santo Patrono era rincasato ubriaco e dopo essere penetrato nella sua stanzetta ed averla zittita, era scivolato nel suo lettino e vi aveva passato la nottata.

L’episodio colpì molto il sacerdote, il quale, dal nipote prediletto, aveva ottenuto solenne promessa di tenersi lontano dalle donne di casa e da Viscogna in maniera particolare.

Il danno stavolta era grave poiché la ragazza era minorenne e v’era di mezzo quel “rapporto di parentela” oggetto di chiacchiere paesane sul conto del vecchio prete.

Occorreva una decisione rapida ed efficace perché, se la circostanza si fosse risaputa troppo presto, Don Peppe poteva dire addio all’orgoglio di ornare il cappello arcipretale col cordone da monsignore, dignità che il vescovo, in futuro non gli avrebbe mai più concesso.

Per porre rimedio all’ennesimo guaio convocò il notaio, col quale rimase al chiuso delle sue stanze per tutta mattinata, lasciando in grandi ambasce il parentado.

L’arciprete stavolta volle dare un duro esempio “ à quìri dà ràzza sùa”. Vendette tutto quel che possedeva ed il ricavato lo versò ad uno dei famigli, “nù furìsì” che curava le vigne di proprietà del casato e che si mostro disponibile a farsi carico di Viscògna, sposandola.

Due sole condizioni vennero poste ai neo sposi dall’anziano sacerdote; che al nascituro fosse imposto un nome non presente nella sua stirpe e che la ricchezza da lui elargita, fosse impiegata e goduta in località posta fuori del nostro paese.

Don Peppe dal vescovo ebbe la prestigiosa nomina, ma la godette poco, morendo proprio nel giorno in cui, in un paese non lontano da San Donato, Viscògna metteva al mondo un bimbo.

Negli anni a venire, quel neonato, facendo tesoro della particolare inclinazione alla speculazione (tipica “ntà quìri dò sànghu sùa”) ed imitando i suoi “pàrìenti sàntunatìsi” nell’impiegare al meglio le sostanze ereditate, sarebbe divenuto il capostipite di una delle più ricche e potenti famiglie del circondario.

Ma questa è altra storia.

Novembre 2015
Minùcciu

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