Come eravamo : Quìri chì ccì l’ànu fàtta.

La Redazione & Minucciu

“Vijàta à ghìddhu e vijàta àra màmma ch’à fàttu”. Tante volte ho udito questa frase, pronunciata dalle anziane sandonatesi a mo di viatico e di benedizione nei confronti di un compaesano che, mettendo a profitto la propria intelligenza e con applicazione e sacrifici, si era fatto valere ed aveva conquistato una posizione di prestigio e responsabilità, dando così lustro alla propria casata e, di riflesso, anche al paese.

La stessa frase mi è tornata alla memoria nel corso di approfondimenti sull’economia sandonatese quando, svolgendo ricerche sulla bachicoltura, mi sono imbattuto in citazioni e frammenti di vita riguardanti il sandonatese Luigi Alfonso Casella (1865- 1945) che della sericoltura calabrese è stato, al suo tempo, una figura chiave.

Sia prima che dopo l’unità nazionale, in San Donato, (così come in altre realtà calabresi) l’allevamento del baco da seta è stata una delle voci importanti dell’economia locale, il tanto da indurre la coltivazione del gelso anche in alcune aree interne all’abitato del paese, (cito ad esempio quella in località Sàmmicuòsu sul retro dell’abitazione i zìu Pascali i vihjèli) perché di foglie della pianta del gelso erano formate le lettiere su cui venivano allevati “ì sìrichi” che delle medesime foglie si nutrivano.

L’economia calabrese ha sempre sofferto l’assenza di infrastrutture ed investimenti, le prime addebitabili alla “latitanza” del potere centrale ed i secondi alla mentalità “sparagnina”della nobiltà latifondista ed alla scarsa inclinazione al rischio dell’investimento della borghesia. La situazione di stallo regionale permaneva anche nel sandonatese, la cui realtà economica era caratterizzata da produzioni rurali quali cerealicoltura, castanicoltura, viticoltura e olivicoltura uniche compatibili con un terreno montagnoso, giudicato dai più ed a torto, poco fertile, in realtà oggetto di tecniche agricole antiquate.

Uniche vere risorse da porre a profitto pare fossero, per storia e tradizione, quelle minerarie, presenti in misura tale da far guadagnare al paese il nome di “conca dei metalli”, questo perché, nelle zone montane, erano stati trovati saggi di ferro, cristalli quarzosi, diaspri, oro, argento, galena, cinabro, pirite, vetriolo di rame, carbone fossile e uranio. Dette risorse per essere messe a frutto necessitavano di infrastrutture, quali viabilità, impianti, energia, tutte da realizzare con investimenti pubblici. Richiedevano anche operazioni di ricerche e scavi da realizzare con investimenti in concorrenza fra privati, circostanza mai realizzata e che ha causato stagnazione dell’economia locale ed all’assenza di opportunità lavorative. In tale quadro la sericoltura, che non necessitava di investimenti consistenti, poteva e doveva essere una possibilità di incentivazione dell’economia rurale.

A fine ottocento inizi novecento, sembrava che, per la sericoltura, la situazione di stallo potesse mutare, grazie ad un progetto di investimenti governativo, nel quale era chiamato a partecipare l’Osservatorio Bacologico di Cosenza, istituito nel 1873 e dal 1911 diretto da Luigi Alfonso Casella, il quale, appena nominato, gli impresse, per quei tempi, un singolare dinamismo, tanto che, nel 1918, l’ente venne trasformato in Istituto Bacologico per la Calabria. In controtendenza, per quei tempi, il Casella ebbe il merito di aver gestito in maniera fruttuosa i fondi della legge serica impiegandoli per sostenere le classi contrattualmente più deboli, ossia i piccoli allevatori, in controtendenza ad una prassi che voleva e vedeva favoriti i grandi proprietari terrieri ed i filandieri.

Il Casella fu tecnico competente e conoscitore della realtà serica per la quale intraprese una seria propaganda in seno all’Osservatorio bacologico e fu in grado di proporre validi progetti per l’accrescimento sia nella produzione numerica sia della produttività negli allevamenti.

Alfonso Luigi Casella era di famiglia piccolo borghese, le cui origini fondavano nel comune di San Donato Ninea. Erano sandonatesi il nonno Luigi (1812- ?) ed il padre Pietro Giovanni (1842-1900), i quali svolgevano entrambi la professione di sarto. In particolare, Pietro Giovanni Casella, dopo il matrimonio con Caterina Iannuzzi (1845-1896), celebrato nel 1864, figurava negli atti pubblici del comune con la professione di “proprietario”, ossia persona che vive della rendita dei propri beni.

Luigi Alfonso Casella, all’età di quindici anni, nel 1880, si trasferì in Cosenza per compiere gli studi agrari che, dopo alcune interruzioni, concluse conseguendo la licenza nel 1889. Durante il corso di studi si distinse per rendimento scolastico entrando così nelle grazie del direttore della scuola di pratica agricola, Bartolomeo Tommasi, il quale lo aiutò inizialmente nella ricerca del primo impiego e successivamente nella progressione della carriera scolastica che il Casella intraprese. Il padre voleva il giovane dedito completamente agli studi ma il Casella, su iniziativa del direttore della scuola, accettò un impiego alle dipendenze di Francesco Pignatelli, principe di Strongoli che lo assunse prima come “agente di campagna” presso i latifondi in Piana di Cerchiara e successivamente come “segretario contabile” nelle miniere di Melissa e Strongoli. Ciò fu possibile in base al regolamento della scuola, approvato dal Ministero dell’Agricoltura Industria e Commercio, là dove si prevedeva che, superati gli esami del terzo anno, gli studenti potevano acquisire il titolo di “fattore agente di campagna” ed entrare nel mondo del lavoro dopo aver ricevuto dal Prefetto la patente di “esperto di campagna per la valutazione dei frutti pendenti e per rilevamenti di terreni di qualunque estensione e forma e relative misurazioni e stime”.

Circa le attività economiche, svolte all’interno dei possedimenti Pignatelli, il Casella ha lasciato pochi elementi di valutazione sebbene detta esperienza lavorativa, intensa e significativa per la sua formazione, fu segnata da gravosità delle mansioni e da condizioni di vita assimilabili a quelle servili. Il che non stupisce, vista la mentalità della nobiltà all’epoca, tutta spocchia ed economicamente orientata a rendite di posizione, con scarsa attenzione per la manodopera e poca propensione agli investimenti ed alle migliorie sui latifondi. Il comune di Cerchiara di Calabria era ubicato in una delle zone più fertili del circondario, sostanzialmente inabitabile, come la maggior parte della piana di Sibari, per la febbre malarica che vi era endemica e che il Casella contrasse. Per le conseguenze della malattia l’agronomo fu costretto a rinunciare al lavoro ed abbandonare la zona.

In Reggio Emilia, qualche tempo dopo, il Casella segue alcuni corsi in tecniche casearie e compie un tirocinio di manipolazioni presso aziende nel lodigiano; si dedica anche alla fabbricazione di formaggio (grana e svizzero) a Fombio e Sesto Cremonese. Conclusa l’esperienza nel reggiano, nel 1887 trova impiego come aiuto capo coltivatore e capo casaro nella scuola pratica di agricoltura di Caltagirone dove aveva sede un Osservatorio di caseificio e dove il Casella, oltre a svolgere i compiti di agronomo, tiene corsi di manipolazione casearia agli alunni del convitto sui quali esercitava anche funzioni di sorveglianza.

Dette esperienze gli fecero ottenere i titoli necessari alla nomina a capo coltivatore presso la scuola pratica di agricoltura in Cosenza, dove iniziò a lavorare, dal gennaio 1888, con assegno mensile di lire sessanta. L’incarico ebbe durata di due anni circa, quando il Casella raggiunse il vero traguardo della sua carriera, ossia la nomina a maestro censore di disciplina e cultura generale.

Alla nomina pare non fosse estraneo il suo primo estimatore, Bartolomeo Tommasi, il quale , in un attestato, così si esprimeva nei confronti del Casella. ”””tutta questa carriera, percorsa in breve tempo, devesi all’operosità ed alla forza di volontà spiegata dal Casella in qualsiasi cosa di cui si è occupato, ed il sottoscritto, che lo ha, si può dire, avuto sempre con sé, prima in qualità di alunno, poi come impiegato, è lieto di poter attestare che non solo il Casella non è mai venuto meno all’adempimento dei suoi doveri, ma ha, come Capo Coltivatore, come insegnante e come censore, disimpegnato con lode il suo ufficio, mostrando attitudine speciale allo insegnamento, amore per l’educazione della gioventù, ed una predilezione per l’agricoltura, di cui spesso si è occupato anche da censore, e per l’insegnamento delle matematiche”””.

Questi i “frammenti di vita” di un sandonatese di successo, “ì gùnu chì ccì l’àvìa fàtta”, che con sacrifici, applicazione e fatica aveva conquistato nella società una posizione di rilievo.

Aprile 2013

Minucciu

Permalink link a questo articolo: http://www.sandonatodininea-cs.it/2013/04/05/come-eravamo-quiri-chi-cci-l%e2%80%99anu-fatta/

1 commento

    • caterina il 5 Aprile 2013 alle 19 h 46 min
    • Rispondi

    Il signor casella ha dato un esempio di umiltà e civiltà ,uomo di rilievo a dato valore alle nostre origini contadine nonostante gli studi lui dava valore nel apprendimento di tutto ciò che riguardava l’agricoltura ,conoscere e amare le coltivazione dei terreni nonostante fosse anche insegnante amava dare educazione ai giovani ,donava a loro il sapere di tutto ciò che riguardava l’agricoltura che lui amava cosi tanto …
    dovrebbero esistere ancora oggi ..uomini di rilievo cosi ,i giovani devono capire il sacrificio del lavoro iniziando non dai lavori che riguardano l’informatica o altro ma dai lavori umili dove ci si sporca le mani con la terra o a pulire le stalle con tutta la loro sporcizia solo cosi si darebbe più valore alla semplicità e all’amore per le nostre terre all’amore per la vita si apprezzerebbero di piu le persone che non hanno cultura ma che hanno anche loro tanto da insegnare , poi si che ci sarebbe piu rispetto e ben venga che uno diventa politico avvocato o altro ….

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.