Luigi Bisignani & Roberto Campolongo
COSENZA Tipografia di R. Riccio-1913
Da più tempo avevo in mente di scrivere uno studio storico sopra San Donato Ninea, che si perde nell’oscurità dei secoli, per poterlo tramandare ai nostri futuri nipoti. Ma messomi a scrivere, non poche furono le difficoltà che incontrai, e per non lasciare il lavoro a metà, ho dovuto riscontrare parecchi lavori di autori diversi che hanno scritto sopra la Calabria, ma notizie ne trovai poche, con tutto ciò mi sono state utili, perché unite alla tradizione orale, mi hanno fatto determinare la loro classificazione etnografica. Le reliquie poi delle loro abitazioni e delle loro suppellettili, mi hanno dato un’idea chiara del modo come vivevano e quali erano i costumi dei Sandonatesi.
Vi sono riuscito? Giudicheranno gli altri.
S. Donato Ninea
Roberto Campolongo
CAP. I
Topografia – Clima – Flora e Fauna
San Donato Ninea sorge sul ridosso di una collina alle falde della montagna denominata Serra di Santa Croce, ad una altezza di ottocento metri sopra il livello del mare. La sua posizione, quantunque scomoda, a forma di scala, distante un’ora dalla via provinciale sottostante, pure gode di un incantevole panorama, l’occhio si spazia lungamente e si diletta a guardare le montagne della Sila con tutti i paeselli circonvicini di Santa Sofia, Corigliano, Spezzano Grande, la pianura di Sibari, il vicino Altomonte e Policastrello.I suoi confini sono: dalla parte destra Policastrello e le montagne di Serra Santa Croce; dalla sinistra Acquaformosa con le montagne della Madonna del Monte; dalla parte di basso, con le pianure della Ficaia e Macellaio. I fiumi che bagnano le due parti laterali del paese sono: il Rosa e il Grondi. Il fiume Rosa nasce dalle montagne di Piani Puledro e scarica le sue acque nel fiume Occida sotto Mottafollone, ed è rinomato per la pesca del reale, della trota, della lampreda e dell’anguillone. Il Grondi nasce dalla montagne della Madonna del Monte, dalla fontana detta Mangano e scarica le sue a
cque nel fiume Esare sotto Altomonte. Oltre ai suddetti fiumi, abbiamo altre sorgenti di acqua che sono di grande utilità pel paese, sia per l’innaffiamento dei giardini. E sia ancora come acqua potabile per gli abitanti stessi. I monti principali sono: la Mula, così detta dallo Zannoni, a mille e duecento metri sul livello del mare, si estende nel Serapolio alla pietra di San Cirneco a Buonvicino. L’importante di questo monte è perché si trovano in esso il cristallo purissimo, il sale terrestre, i berilli, la pietra frigia e la silicea. Il suolo è composto di roccia silicea con terreno primitivo, vi abbonda il granito ed il calcare stratificato sub appennino. Nelle parti, poi, ove lo schisto s’incontra con le rocce terziarie, si vede il granito e la calcarea primitiva a forma di filoni orizzontali. La montagna Calva e Piano Puledro sono della stessa natura della Mula, e vi abbonda l’albero del faggio. La pianura sottostante offre sostanze vulcaniche con segni di combustioni; vi si trova la pirite idrorgirocuprica con punti piritosi disseminati nel calcare granelloso ed il lapillo con i fossili combustibili dei terrini mediani. Si trova ancora la marna argillosa, o creta, la marna calcare, o talcosa, denominata tufo, ed un’altra specie di creta nericcia, temente, impura ed infarcita di pietruzze, detta madda. Dalla marna argillosa si formano le tegole; la marna calcarea si cambia in calce, e la creta in prismi, a guisa di mattoni cotti al sole, si usa come pietra per fabbricare le case di campagna.
Il terreno è puramente calcare, alternato da un conglomerato tufaceo minuto nel quale si trovano dei granelli di feldspato e di quarzo con laminette di mica. E’ un conglomerato granitico che si manifesta su ambo i lati, quale un membro della formazione terziaria. Sotto al conglomerato si scorge anche lo schisto cristallino. La natura della roccia è molto variata, ed oscilla tra il micascisto, lo schisto amfibolico e lo schisto dioritico. La cresta della montagna è formata di diorite granulosa; roccia composta di plagioclasio; horniblenda e diorite.
San Donato Ninea, trovandosi ad ottocento metri sul mare, oltre ad avere un panorama meraviglioso, ha un’aria ossigenata ed un clima temperato.
L’aria non ha mai lo stesso peso, mai la stessa temperatura, mai la stessa densità; e noi che viviamo in montagna, sopportiamo pazientemente tutte queste variazioni che hanno grande influenza sopra il nostro corpo.
La temperatura è di gradi 11 e 28/10, e dista quasi egualmente dal massimo calore al massimo freddo. I venti predominanti sono quello di Ponente e di Scirocco, ed è per questo che la temperatura atmosferica soggiace a mille vicende si abbassa e si eleva secondo il calore e la freddezza del vento. L’evaporazione continua dei fiumi e del vicino Mar Ionio, poi, mentre forma da una parte uno stato diatermico dell’atmosfera che modifica l’irraggiamento del suolo e mantiene il calorico terrestre fra limiti molto vantaggiosi, modificando anche l’azione dei raggi solari per mutamenti nel valore dell’indice di sinfrangibilità atmosferica; determina dall’altra parte uno stato elettrico particolare, che permette lo sciogliersi delle nubi in frequenti piogge, e non di rado si manifesta col più imponente apparato meteorico. L’utile fisico che questo stato apporta all’agricoltura, viene avvalorato dal chimico, per la formazione dei prodotti ammoniacali ed azotici e dello stesso ozono, sostanze del più alto interesse per l’economia vegetale. Però gl’incolsulti dissodamenti in larga scala, su tutto il terreno scosceso dei monti, reso allo stato di nuda roccia, oltre che sono di gran danno al paese, apportano serii perturbamenti alle vicende metereologiche per le continue bufere, temporali, inondazioni e disfacimento dell’intiere proprietà. Di più, privo di scienze agricole, com’è il nostro contadino, oltre che si affatica terribilmente per coltivare i suoi campi, all’ultimo resta deluso per lo scarso raccolto.
L’agricoltura, infatti, langue miseramente da noi, perché ancora il contadino usa strumenti agrarii semplicissimi e rozzi che nulla fanno di bene ai nostri campi, mentre si potrebbero usare strumenti più perfetti e moderni.
Le piante erbacee che si coltivano nel mio paese sono: fra le graminacee, il frumento, l’avena, l’orzo, il granturco, e sui monti la segala; fra le leguminose, il fagiolo, il lino, la fava, il pisello, il cece, la lenticchia e la patata. Le specie arboree sono: fra le orticacee, il fico, il gelso moro e bianco; fra le rosacee il pero, il sorbo, il ceraso; fra le ampeledee, la vite, l’ulivo, la quercia, il castagno ed il faggio.
I fiori sono: la viola mammola, la margheritina, il garofano,la rosa, la viola rossa e bianca, la gardenia, il girasole, il giglio, il timo e l’issopo.
Gli animali domestici, sono: il bue. La vacca, l’asino, la pecora, la capra, il porco, il cavallo, il mulo, il cane ed il gatto. I selvaggi sono: la lepre, la volpe, il lupo, il cinghiale ed il cervo. Tra i volatili: il pipistrello, il corvo, lo sparviero, la quaglia. La pernice, il colombo, il passerotto, il merlo, l’allodola, il tordo e la capinera.
Tra i rettili: la vipera, il serpente, il ramarro, la lucerta. Tra gli insetti: la lucciola, la cantaride, la tarantola, lo scorpione, l’ape, la vespa. La zanzara, la locusta e lo scarafaggio.
San Donato Ninea, dal come il lettore ha visto, offre un campo vario sia in cose di mineralogie, e sia in cose agricole; ora sta al popolo il sapersene servire, se vuole migliorare le proprie condizioni finanziarie.
CAP. II
Origine del paese fino a noi
L’oscurità che regna sopra l’antichità del mio paese non ha permesso ancora di conciliare le diverse tradizioni che ci rimangono, circa i movimenti dei popoli che l’abitarono. La Calabria da Calo e Brio, che vuol dire: buono ex ubero et abundo, fu sempre travagliata dalle continue scorrerie dei Barberi che la devastarono e la impoverirono, specìe i saraceni nel nono e decimo secolo dell’era cristiana. I primi a venire in Calabria furono gli Osci od Opici, detti Aramei, dalle Are, prime case che abitarono quand’erano nei primi anni di civiltà, e dove pacificamente dimoravano, e da dove, col tempo, furono cacciati dai nuovi popoli, o tribù, dello stesso stipite. Furono detti Aramei, perché abitarono le Are, ossia case poste sui monti, e coltivatori degli Arvi; primi possedimenti di essi. Co tempo il nome Osci si mutò in Enotri-Pelaggi, puando furono designati geograficamente come popoli australi della Penisola, in opposizione agli Etruschi, che di questa popolavano la parte settentrionale. Gli Enotri Pelasgi furono sempre popoli civili; discendenti degli Osci, o Italiani indigeni; le cui terre furono allagate dall’Oceano, all’epoca della Crisi Atlantica. Invase dalle acque dell’Oceano, le terre divennero impraticabili, e gli abitanti che potettero salvarsi, si rifugiarono sopra coste della Grecia, dell’Africa e dell’Asia.
Codesti poveri infelici si chiamarono Pelasgi, ossia Osci sc
ampati dalle terre allagate dall’Oceano. Pelasgi, da Ope, terra, e Lagos, che significa oceano. La Crisi Atlantica avvenne verso il 1896 av. Cristo; e a quest’epoca deve essere avvenuta l’emigrazione dei nostri indigeni dalle loro sedi Italiche; e questi, poi, col tempo si riunirono coi loro affini, rimasti sopra gli alti monti degli Appennini. Il Cantù e molti altri fanno risalire l’emigrazione di questi indigeni nelle nostre parti, a diciassette generazioni prima della caduta di Troia (1) Cesare Cantù, Storia Universale. Il Patavio, nel (De doctrina temporum) pone l’emigrazione verso il 2540 anni dopo la creazione del mondo; 884 anni dopo il diluvio di Noè; 330 avanti alla rovina di Troia: 761 prima della fondazione di Roma; 1514 innanzi l’era volgare. Questi Entri, o Hethei Pelasgi, sono identici agli Osci od Opici, ai Caoni, ai Sicoli, agli Itali, ai Japigli ecc. Tutte codeste genti furono identiche e distinte: identiche nello stipite italico gentilizio, diverse e distinte, in quant’è che ciascuno portò nome diverso, ed ebbe vita, vicissitudini e destini suoi proprii.
Quindi resta sfatata la leggenda di un Enotrio, Arcade, figlio di Licaone, secondo alcuni, e di Pelago secondo altri. I Pelasgi furon insigni fabbri, ricercatori e scopritori di miniere, lavoratori di ferro e di altri metalli. I Pelasgi dice Cantù (1) Cesare Cantù, Storia Universale, Vol. I. Epoca III. Italia, primi abitatori.furono una popolazione industre sfortunata. Dovunque abitarono, ci fa sapere il De Cara, lasciarono il loro nome personale, l’arte loro e la loro civiltà; discesi dalle montagne di Armenia nell’Asia minore, dove s’erano rifugiati durante lo sconvolgimento tellurico del Continente Italico, dall’Asia minore andarono emigrando per l’isole dell’Egeo, pel continente greco meridionale, e per le coste d’Italia. Essendo, venuti alle nostre regioni, d’onde i loro progenitori erano emigrati, come si è detto sopra, non erano Ariani, ma Camiti, non un popolo pre-ariano, o presemitico, né greco, né tale il loro idioma. Una volta che a
vvenne la Crisi Atlantica, dice il Cristofaro, e verificatosi per parte dei naufraghi, o pelasgi, le invasioni delle terre prossime a quelle furono dall’Oceano sfondate, gl’Indigeni o gli Osci cessarono di essere tranquilli abitatori delle Are e i cultori degli Arvi, e divennero gli schiavi della gente invaditrice. E però si disse, che gli Enotri-Pelasgi avessero vinti gli Aramei e gli Ausonii, ch’erano gli Osci, abitanti delle rive dell’Ionio, e le loro terre ne avessero occupato: si perché questa invasione non successe nel principio in altro che nella parti meridionali dell’attuale Calabria; e si perché gli Enotri, occupando la nostra regione, non si estesero mai più in là di una linea supposta, come tirata dal golfo di Squillace a quello di Santa Eufemia (1) Salvatore Cristofaro-Cronistoria di S. Marco Argentano, parte I.
Essendo poi storico il dominio pelagico, col tempo non pare che superassero quella linea, ma occuparono l’Italia meridionale e parte della centrale. I Pelasgi salirono in grande considerazione come popolo forte e civile verso il 1240 anni av. Cristo, 746 a datare dal 1986, epoca in che avvenne la Crisi Atlantica, e quindi della loro prima emigrazione nell’attuale continente Italico. Questi Enotri Pelasgi si stabilirono in Calabria e vi apportarono nuove leggi e costumi, e man mano che crebbero e divennero potenti, cominciarono a fabbricare nuove città e paesi, estendendo il loro dominio dal Golfo di Squillace a Santa Eufemia fino in Sila. Una di queste colonie di Enotri Pelasgi, scoperte delle miniere nelle vicinanze dell’attuale San Donato Ninea, vi prese dimora, e cominciarono a fabbricarsi le prime case, e dal nome del capo della piccola carovana: Ninèvo chiamarono il piccolo paesetto Nineva, ma col tempo, poi, si tramutò in Ninea (1) Andreotti- Storia dei Casentini- vol.I, cap. III, pag.77.
II.
Le prime case del nuovo paesetto sorsero nella contrada denominata Pantano, proprio sopra la collinetta detta Santo Vilaso o Biagio ed erano 112 fuochi.
Dalla formazione di questo nuovo paesetto, un cinque secoli prima della venuta di Cristo, fino al 1000, non se ne seppe mai nulla, restò nell’osc
urità dei secoli come un popolo di pastori, di agricoltori ed investigatori, o cercatori di miniere; sempre laboriosi, di costumi semplici, ma ladri, tanto che spesso venivano in guerra con i paesi circonvicini. Divulgatosi il Vangelo di Cristo, divennero Cristiani; mentre prima seguivano le credenze pagane dei Greci; e siccome allora era in voga che tutti i Cristiani si eleggevano a protettore un santo, così saputo che in Arezzo vi era stato un vescovo a nome Donato, il quale aveva fatto, e fa tutto giorno, grandi miracoli, specie a quei che venivano colpiti da paralisi, e di questa malattia ne morivano, e ne muoiono assai, così lo elessero a protettore, e al nome di Ninea vi aggiunsero quello di S. Donato, e ciò avvenne verso il decimo secolo.
I Sandonatesi diventati sempre più civili e ricchi, vennero molestati e rubati sia dalla gente dei paesi vicini, e sia ancora dai Saraceni che avevano infestata tutta la Calabria. Ora, visto che la posizione del paese offriva poca sicurezza, e difficilmente si potevano difendere dai nemici ed invasori; pensarono di trovarsi un luogo più sicuro, e scelsero come nuova dimora, la parte più alta dell’attuale paese, sopra la montagnetta denominata Motta; la cinsero di mura, ed ogni sera chiudevano le porte del paese. Fu chiamata Motta o Morta, perché, chi quivi capitava di persona sospetta, veniva uccisa, e dall’alto della montagnetta, oltre ad essere più sicuri dei nemici, godevano vita tranquilla ed un’aria salubre ed ossigenata.
Passato il pericolo dei nemici, come dirò in seguito, cominciarono ad essere più indipendenti e sicuri, e siccome la popolazione era aumentata di molto, così pensarono di estendere il paese non dalla parte della montagna, ma verso il centro, e scesi un poco sotto, principiarono a fabbricare le prime case nella parte detta Santo Cristofaro.
Il paese prima era un bosco fitto di abeti e faggi, che col tempo scomparvero, man mano che il popolo cresceva e si fabbricava nuove case. Tra le persone che abitavano la parte di sopra del paese, detta Motta, e quelli del centro, regnò sempre un odio tremendo, tanto che i giovanotti di una parte non potevano sposare
le giovanette dell’altra, e se per caso si permettevano di andare a cantare con la zampogna, o chitarra; (come una volta fecero gli antichi trovatori della Provenza, ed ai tempi nostri gli Sdagnuoli, seguaci dei trovieri antichi) sotto la finestra di qualche vaga ragazza che loro piaceva, venivano a serie questioni; quest’innato odio ora è finito da un cinquant’anni in qua.
Dal 1200 veramente San Donato Ninea cominciò a dare segni veri di civiltà, tanto che divenne sede ducale sotto la famiglia Sanseverino, di nazione Normanna venuto in Italia verso il 1288, assieme alla famiglia Campolongo, San Biagio e ad altre. Dal 1200 fino al 1647 vissero vita tranquilla. Nel 1648, poi, seguendo l’esempio della rivoluzione scoppiata a Napoli per opera di Masaniello, il quale aveva gridato contro il sopruso del Duca d’Arcos, il quale aveva affamati tutti i Napoletani, e per ultimo aveva posto la gabella anche sopra la frutta: ed in Calabria mossa da altre persone, perché non volevano gli Spagnoli, i quali avevano impoverita la nostra Calabria, così anche i Sandonatesi si ribellarono contro del Duca Ametrano; e siccome ancora non era scomparso da loro il maledetto vizio del rubare, così assaltata la mandria del Duca, la derubarono di 4000 pecore, né si curarono di chiedergli perdono. Saputo ciò il Duca, fece ricorso al Viceré di Napoli: Olivarez ministro del Re di Spagna, Filippo IV; il quale mandò 40 soldati della compagnia del battaglione che presiedeva a Cosenza, mentre altre 40 persone le riunì tra servi ed amici, ed armati tutti, si presentarono in San Donato Ninea per mandare ragione del fatto; ma i Sandonatesi si mantennero duri alle domande del giudice, ed invece di scolparsi, preferirono di non dar conto del loro oprato. Tanta noncuranza inasprì di più il Duca, il quale avuto in suo potere un certo Marco di Vuono, uno del capi della rivoluzione, e complice del ladrocinio fatto, lo fece impiccare per la gola e poi partì per Cosenza. Questa punizione irritò gli animi dei Sandonatesi, tanto che ben presto se ne videro le conseguenze. “Il Duca, dice il Capeceladro, credendo che il terrore del castigo inflitto al Vuono fosse stato bastevole a far stare sottoposti al suo volere tutto il popolo, col primo di agosto dell’anno 1648, assieme a Don Francesco Sanseverino, suo cugino e ad altri suoi familiari, si recò di nuovo in San Donato per riscuotere l
a tassa che il giudice aveva imposto al popolo come castigo delle pecore rubate, ma il popolo si rifiutò di pagare, ed il Duca, per vendicarsi, cominciò a mostrarsi severo e vendicativo con tutti. La popolazione era oramai stanca delle prepotenze del Duca e giurarono di vendicarsi; ed il giuramento si avverò subito. Di fatti il giorno 10 agosto dello stesso anno, avendosi il Duca udita la messa, nel ritirarsi che fece a casa di Francesco di Arnone, perché la sua casa, attuale palazzo Campolongo, era stata rovinata dal popolo, affacciatosi ad una finestra, gli furono sparati due colpi di fucile dalla casa di Romano Balsamo che lo resero cadavere all’istante. Gli uccisori furono: mercurio Panebianco, Francesco Iannuzzi e Francesco Panebianco, i quali uniti al resto della popolazione volevano bruciare la casa del Duca ed avere nelle mani anche il cugino Don Francesco Sanseverino, il quale riuscì a fuggire per opera di un suo familiare a nome Mario Biancamano, ma scoperto mentre stava per mettersi al sicuro, fu anche ucciso, assieme a due guardiani e a tre soldati, e così i Sandonatesi si vendicarono barbaramente del loro padrone e Duca”. Col Duca Ametrano finì anche la sua famiglia; restò solo una figliuola che sposò il Duca di San Biagio di Malvisto e questi, poi, vendette il suo feudo di San Donato Ninea ai Baroni Campolongo verso il 1700.
III
Il Duca Ametrano, parente dei Sanseverino, se da una parte fu cattivo verso i Sandonatesi, dall’altra parte si rese benemerito ed amante della civiltà, perché aprì scuole private e fabbricò diverse chiese e monasteri. Le prime chiese che sorsero in paese furono quelle della S.S. Trinità fatta costruire dal Duca con la cappella gentilizia, ora dei baroni Campolongo, ove si vede ancora lo stemma, sia sulla porta principale della chiesa e sia ancora scolpito sull’altare della cappella; lavoro assai prezioso d’intaglio, pel quadro della Madonna del Rosario, e per una lapida dello stesso Duca che si trova incastrata sul pavimento della medesima cappella. La chiesa dell’Assunta è più antica di quella della S.S. Trinità; fu fabbricata verso il 1000 dai primi abitanti del paese; prima era una piccola cappella fu ingrandita molti secoli dopo.
Le altre chiesette di Santo Cristofaro e di San Seb
astiano furono fabbricate dalla prima gente che cominciò a costruire le nuove case a quel rione. Sant’Onofrio, nella regione detta Santo Vilaso o Biagio e la cappella dedicata al protettore San Donato, al Pantano, vennero fabbricate verso il 1704; la chiesetta di Santo Onofrio è distrutta, quella di San Donato e stata abbellita dagli Americani e dalla famiglia Campolongo; fu ingrandita da Don Pietro Ceraso Sandonatese, verso il 1893. Dei monasteri che una volta esistevano in San Donato uno era sopra la montagna detta Mula, dell’ordine dei Cistercensi con 40 monaci, e tra questi, si vuole, anche San Nilo da Rossano Calabro; uno dei barnabiti situato nella parte superiore del paese; nella regione detta San Berardino, con la chiesetta dedicata a Sant’Antonio; ed il terso dei Riformati, fabbricato alla parte opposta del paese nella località detta Convento, che durò fino al 1860; nel 1865 fu poi distrutto dagli stessi Sandonatesi. Del monastero dei Barnabiti e dei Riformati, restano solo due ruderi diruti e scalcinati. I monasteri sono tutti distrutti; di chiese abbiamo solo l’Assunta, la S.S. Trinità, la Madonna del Carmelo, San Donato ed altre piccole chiesette, ad una grotta dedicata a Sant’Angelo; grotta assai pittoresca ed originale; le pareti laterali sono di pietra calcare di forma svariata e diversa; sulla medesima pietra, l’acqua che cola, ed il tempo, hanno formato delle belle e fantastiche stalattiti, intorno alle quali cresce del muschio e delle erba acquatiche. Questa grotta fu anticamente un eremitaggio, e dall’ultimo eremita, Angelo, uomo pio e devoto, si intitolò la medesima, e si trova ai piedi del monte di Serra di Santa Croce. Dal 1648 al 1811 i Sandonatesi menarono vita tranquilla; nel 1811 Napoleone I abolì il feudalismo, e tutti i feudi vennero divisi in due parti; una fu data al padrone del feudo e l’altra al Municipio e si cominciarono a pagare, le tasse; tra questi feudi vi andò annoverato anche quello del Barone Campolongo. In questo periodo di tempo i Sandonatesi cominciarono a mostrare il loro valore con addivenire soldati volontari di Napoleone I, e presero parte alla guerra di Mosca e di Waterloo, dimostrando coraggio ed affetto verso il grande Monarca, nel 1848 si arruolarono volontari con Garibaldi e combattereno a Villafranca, a Custoza e a Capua: nel 1870 presero parte alla Breccia di Portapia, e di questi veterani dell’Indipendenza d’Italia ne abbiamo ancora un sei o sette, che il Governo, in merito del sangue sparso per la Patria, passa loro un piccolo stipendio annuo.
Dal 1870 fino al 1913 il paese è molto migliorato, e ciò si deve alla solerzia dei paesani, i quali vanno in America e mandano molta moneta, e continuamente fanno fabbricati nuovi e si rendono ogni giorno sempre più civili.
Il paese inoltre offre anche una fioritura di bravi professionisti; abbiamo buoni medici, avvocati, farmacisti, ingegneri, bravi e valorosi ufficiali dell’esercito ed ottimi professori. Da tutti si fa a gara per nobilitare se stessi ed onorare il paese natio; ciò si deve a nostro esclusivo vanto, perché fra lo spazio di cinquant’anni, abbiamo saputo affermarci, col rendersi civili e degni di stima.
L’attuale campana a mortorio, fusa ed ingrandita dall’Arciprete Marini e dal Clero nell’anno 1913, con la moneta tolta dalla vendita di un pezzo di terreno, coltivato ad alberi di castagno, fu comperata dal Barone Francesco Saverio Campolongo, a Napoli nell’anno 1748.
CAP. III.
Usi, Costumi, Idioma e Religione
San Donato di Ninea essendo un paese molto antico, così anche dagli antichi prese usi e costumi che si tramandarono da padre a figlio fino ai nostri tempi. Ancora rimangono i vestigi della prima età pastorale e patriarcale, di quella vita che menarono tra noi gli Opici e i Bruzii, e che aggiunta ad essa l’agricoltura, fu l’origine e la salvezza del mio paese. I nostri primi padri, dice il Micali, divennero forti e potenti per la pastorizia e l’agricoltura. “Le vestigia di una prima vita tutta pastorale ed agricola si conservarono mai sempre nella religione, nei costumi e negli abiti popolari”. Durarono
lungamente le feste Petilie e le Lupercali, solennità di molto anteriore ai principii di Roma e propiziatorie alle greggi ed ai pastori, nelle quali ad onor della Dea si accendevano fuochi di festeggiamento, e quest’uso contadinesco si conserva tuttavia nelle nostre campagne con moltissime altre consuetudini rustiche.
San Donato Ninea essendo di origine Greco prese molti usi, religione e feste. Una delle tante feste greche erano i festeggiamenti che si facevano in onore del Dio Bacco ed Arianna; la stessa festa ancora si mantiene in San Donato Ninea, ed in Carnevale, specie negli ultimi tre giorni è solito, che si vestono parecchie persone da soldati di Carnevale (noi li chiamiamo Sbandieri o Alabardieri), con abiti alla foggia di Arlecchino, con un cappello di cartone a forma di piramide tutto adorno di nastri di seta di varii colori, ed una spada di legno in mano. Questi soldati, un cinquant’anni addietro, proibivano severamente il lavoro negli ultimi tre giorni: carceravano i trasgressori e li tenevano in prigione fino al primo di Quaresima; ora non si fa più. Agli uomini si unirono, col tempo, anche le donne, le quali sono più caratteristiche degli antichi soldati di Carnevale, perché sopra la veste si mettono una giacca svoltata del marito (sono tutte donne maritate che fanno questa farsa); un cappello da uomo ed un fucile di canna, un fazzoletto rosso al collo, ed un orciuolo pieno di vino al braccio, che pende. I nuovi soldati, donne, accompagnate con la zampogna o altro strumento, escono fuori dal paese, dove trovano i mariti vestiti da donne, con addosso vesti lacere e sgualcite, una pala da forno in mano, un cencio sulla testa, e cominciano a cantare canzoni amorose; finito il canto la donna vuole imporsi all’uomo con volerlo tenere ubbidiente al suo volere; ma l’uomo si ribella, ed allora succede una specie di dimostrazione ostile fra ambo le parti; l’uomo fugge, e la donna lo rincorre fino a prenderlo prigioniero e gli lega un fazzoletto al braccio e non lo lascia allontanare dal suo fianco. Finito l’incarceramento degli uomini, a gruppi, con la zampogna che suona, s’incamminano verso il paese e cominciano a cantare per sotto le finestre degli amici e parenti, i quali sentita la canzone, l’invitano a saline nelle proprie case e cominciano a mangiare salsiccia e a bere vino, dopo di che escono e fa
nno lo stesso sotto le finestre di altri amici e parenti, e questa cantilena, ed inviti, dura tutta la notte fino alle nove del giorno dopo; nelle ore pomeridiane dello stesso giorno, poi, escono le mascherate e rappresentano delle farse, sempre a soggetto personale, ma satirico, e si chiude la serata con la cavalcata la quale rappresenta ora una scena storica: ed ora figure di personaggi diversi, sempre in rapporto ai ricordi delle antiche feste che si tributavano a Bacco e ad Arianna.
Questa farsa originale si fa il lunedì di Carnevale, riguardo poi al modo di vestire dei primi Sandonatesi, non se ne sa nulla, forse usarono abiti alla greca che poi smisero col tempo. Fino ad un quarant’anni fa vestivano rosso con lo scialle nero, ora vestono nero con abiti di panno, di zigrino e di tibet. L’originale dell’abito dei Sandonatesi consiste in questo: al davanti il corpetto anziché essere chiuso fino al collo, resta aperto a metà, da far vedere la camicia di sotto; le maniche sono distaccate dal corpetto e vi riattaccano con un nastro nero, e si vede anche la camicia che sporge dal di sotto. Tempo dietro, le vesti delle contadine erano di fiandina e cucite tutte a pieghe che formavano una figura originale nella persona che l’indossava, ora non si usa più questa moda, e vestono molto elegante. Il contadino veste abiti da lana, giacca corta e calzoni corti. Il calzone viene adornato con una lunga calza di lana nera che rimbocca al di sopra del ginocchio, vicino alla coscia, a forma di cerchio, mentre il cappello è di feltro duro con le falde diritte e finisce a forma di cono.
Questa foggia di vestire ora va man mano scomparendo, specie oggigiorno che tutti vanno in America e vestono alla moderna.
Gli antichi Sandonatesi usavano capanne crestate di
argilla, a forma di pagliaio, col tetto ripiegato da una parte, ed adorne di piccole finestre. Col tempo cominciarono ad usare la pietra, e la casa, da piccola e sudicia ch’era, divenne più grande e pulita; ora sono divenuti più civili e si fabbricano delle belle casette, fatte secondo le regole dell’arte, e vi stanno con tutte le comodità della vita. I Sandonatesi, al pari degli altri Calabresi, serbano ancora, quasi intatti, gli usi e i costumi; tenaci negli affetti, fieri nell’odio. Guai a volerli contraddire nelle loro credenze o burlarli dei loro pregiudizi. Molti credono agli influssi della luna, tanto che non tagliano legna verde, non raccolgono la frutta e non mettono a covare le uova alla gallina: se prima la luna non si trova alla sua decrescenza. Si spaventano se la gallina canta da gallo, e se canta la civetta, perché credono alla negromanzia, magia, cabala, stregoneria; tutte cose, che oggi, con i lumi della scienza fanno ridere. La donna del mio paese, sente in sé una energia innata; è tutta vita nello sguardo, nella parola e nel sorriso; quando ti guarda con quegli occhi neri, attraenti, ti conquide, ti attrae; è bella nel viso, ha lineamenti perfetti, colorito bruno o bianco, statura media, capelli neri, o castagni o biondi, parola facile ed è molto affettuosa.
L’uomo al pari della donna, ha carnagione bianca o bruna, statura media, belle forme, ha un cuore affettuoso ed è ospitaliere; ama assai la patria nativa, la donna amata, l’agricoltura, la pastorizia e la religione.
II
Riguardo all’idioma del mio paese, sia negli anni anteriori, che nei tempi presenti c’è molto da dire.
I primi abitanti di Calabria, essendo stati discendenti degli Osci; popoli Aramei, i quali abitarono le Are, prime abitazioni degli uomini, e coltivarono gli Arvi, primi possedimenti di essi, col tempo cambiarono il nome, come dissi nel secondo capitolo, in Enotri-Pelasgi; e questi popoli dovunque andarono portarono con sé, lingu
a propria, costumi proprii e parlavano greco docrio. Alla medesima lingua greca, col tempo, aggiunsero i dialetti dei Collidesi, Focesi ed Ateniesi, i quali sebbene fossero Greci, pure il loro dialetto variava di molti vocaboli dalla lingua madre. Ai suddetti popoli, molto tempo dopo, si riunirono i Bruzii. I Pelasgi dopo 746 anni di dominio in Calabria, furono vinti dai Bruzii, i quali hanno la stessa origine degli Osci-Indigeni, e quindi degli Enotri Pelasgi. Dalla caduta del dominio pelagico a quello dei Bruzii v’è certo un lungo periodo di preparazione; si resero liberi nel primo anno dell’olimpiade CVI, ossia nel 398 di Roma, che risponde al 355 av. l’era volgare. I Bruzii, dice il Cristofaro, unitesi ai coloni lucani ed alle plebi di altre finitime parti d’Italia, tenuti fino a quel tempo nella condizione di schiavi, irruppero contro la prevalenza pelagica, onde i Pelasgi alla loro volta, come era avvenuto agli Opici indigeni, scerero alla condizione di servi. La storia pone l’origine del popolo bruzio, come esistenti in fiore, nelle olimpiedi XLII, LXXII, LXXXIII, XCIX epoche di gran lunga anteriore all’olimpiede, in che si volle l’origine di dette gente CVI.
I Bruzii sottomessi ch’ebbero i Pelasgi, si costituirono a stato, ed ebbero una lingua, un alegge ed una comune religione, addivenendo alla lor volta parte aristocratica, come prima era tale la parte dominante dei Lucumoni Palesgi. Prima di esser soggiogati dalle colonie elleniche, non solo parlavano, ma scrivevano in Osco, ed ancora certo, che l’Osco, lingua dei nostri padri indigeni, si scriveva da destra a sinistra, anziché da sinistra a destra.(1) Grimaldi, Studi Archeologici.
La lingua Osca era idioma volgare, la lingua dialettale dei popoli italici, circondati d’ogni parte dalle colonie greche; la lingua dei nostri indigeni, la quale certamente per mantenere con esse, come era di necessità, religioni, civili e domestiche relazioni, ha dovuto mescersi col linguaggio greco, come dimostrano alcune monete dei Bruzii, e le mamertine, scritte con lettere greche. Per questa ragione Ennio e Lucinio presso festo chiamarono i Bruzii bilingui, perché i Bruzii delle città Osche di origine, ed italiane per secoli, parlavano il greco e l’Osco.(1) Salvatore Cristofaro, Cronistoria; San Marco.
I bruzii divenuti padroni della Calabria adottarono la
costituzione dei vinti Pelasgi, si perché loro affini, e sia perché, sebbene in condizione di oppressi. Si erano adusati sotto quel governo. Base della costituzione pelagica era questa: una confederazione di dodici popoli, di cui le città erano localmente amministrate da un senato e da un magistrato detto Lucumone. Un’assmblea centrale, residente nella capitale della confederazione, composta dai giudici Lucumoni delle città confederate, aveva il potere legislativo. I Decreti di essa, in pace, si eseguivano da un magistrato che si denominava Meddi Tuticus, e nella lingua osca originale Merris Tubtles, in guerra, ad un Imperatore.
Il potere esecutivo di ciascuna città era affidato al Lucumone, come pure nella città capitale. L’oggetto principale dei pubblici consigli o assemblee federali era l’elezione dei sommi magistrali, il decidere della pace e della guerra, delle ambascerie, dei tributi e di tutto ciò che valesse difendere la indipendenza e la libertà, di cui erano fieramente gelosi. (1) Micali – Italia avanti il dominio dei Romani. I Pelasgi di già vinti, divennero plebei, cioè esclusi dal diritto quiritario e dal così detto bonitario, e andarono divisi in Tribù, Curie e centurie; e i vincitori Bruzii, come era avvenuto verso i pelasgi, quando avevano sottomesso gl’Indigeni, divennero Quiriti e Lucumoni, a cui solamente era devoluto il diritto di coprire gli uffici civili, di amministrare i riti della religione, rendere giustizia in pace e comandare in guerra. Riguardo alla religione i Bruzii, fino a che furono esenti dalla denominazione ellenica, la loro religione non andò dominata da quell’antropomorfismo esteriore, che fece della storia di Grecia una poesia, la quale esercitò un’azione positiva su la immaginazione e sul senso.
Per migliaia di anni, secondo che narrano Plutarco (1) Plutarco in Nuda, cap, VII. E S. Agostino (2) S. Agostino, De Civitatae Dei IV 18. i popoli italici venerarono gli Dei senza immagine; e quando da qualche fenomeno della natura restavano sbalorditi, invocavano l’indeterminato, l’infinito: Deus unus et omnis.(3) Celio N. attiche 15. Questo Dio era Iano, Iacco e Bacco; e per quel che ne dicono Microbio nei Saturnali e Valerio Sorano era il: “Iupter omnipotens, regum, rerumque Deu,que”.
“Progenitor, genitrixque, Deum Deus unus et omnis”
.(4) Saturnali, IV Sorone presso Marrone.
Il che vuol dire che Iano si riteneva infinito onnipotente, creatore delle cose tutte; che fosse il primo genito degli uomini; ed infine fecondatore, terminando per essere il complesso di tutte le divinità in un solo Dio. I Bruzii mantennero alto il prestigio del loro nome, come popolo indipendente, fino alle guerre di Pirro, dopo di che caddero sotto la dominazione romana.
III.
I Romani cercavano un’occasione come introdursi nel Bruzio, e approfittando della guerra che i Lucani avevano mosso contro Turio, il senato romano ordinò a Curio Dentato di muovere contro dei Lucani , e dopo la vittoria lasciato un forte presidio nella città.
La vittoria riportata dai Romani sopra i Lucani, spaventò i Bruzii, i quali unitesi ai sanniti e ai Lucani si costituirono in lega per arrestare il volo delle aquile vittoriose delle terribili legioni; ma la fortuna aiutava il forte popolo, e furono vinti nella battaglia mossa contro Turio, e i Bruzii, i Sanniti e i Lucani divennero popoli sottoposti ai Romani, e così i Bruzii da padroni ch’erano divennero sudditi di un popolo più forte e battagliero. I Romani divenuti padroni della Calabria vi apportarono anche i loro costumi e la propria lingua; e se prima si parlava greco, dopo la conquista fatta, il senato ordinò che si fosse parlato latino. La lingua latina si parlò fino alla distruzione dell’Impero romano, dopo di che incominciarono le lingue romanze o neolatine: italiano, francese, provengano, catalano, spagnolo, portoghese, rumeno e ladino; la cui stretta consanguineità affratella tuttora i popoli dell’Italia, della Francia (e in gran parte del Belgio) della Spagna, del Portogallo, della Rumenia e del Canton dei Grigioni in Insvi
zzera. Verso il duecento venuta a mancare la lingua latina, si cominciò a parlare l’italiano, che andò sempre perfezionandosi verso il trecento fino ai tempi presenti. La lingua italiana divenuta comune per tutta l’Italia, venne parlata e scritta anche dai Calabresi; non si parlò mai classicamente, ma frammista ai vocaboli greci, latini, spagnoli, francesi e normanni; ogni nuovo padrone che la governò, vi lasciò una buona quantità di vocaboli, con tanta diversità di pronunzia tra paese e paese, che appena si possono conoscere, dalla favella, gli abitanti di un paese da un altro. Ora, come è successo agli altri paesi di Calabria, così è avvenuto per San Donato Ninea; si ebbe un miscuglio di vocaboli diversi, che hanno formato una lingua italiana barbara e difficile a capirsi.
La Religione dei popoli di Calabria, fu simile a quella dei greci; adoravano le deità pagane, ne seguivano i riti e ne celebravano le feste. Alle divinità facevano preghiere e sacrifizii; offrivano del pane, delle frutta, bevande, ovvero animali che si uccidevano ed in parte o in tutto si bruciavano, e questo sacrificio veniva presieduto dal sacerdote della divinità. Si celebravano in famiglia anche i riti religiosi e certi atti della vita privata, come il matrimonio e la nascita di un figlio, e si osservavano riti speciali per i defunti. I cadaveri si seppellivano o si ardevano su roghi raccogliendone le ceneri entro urne, e si venerava la memoria degli estinti con sacrifizii ed offerte alle tomba. Ogni città e paese aveva il proprio Dio tutelare a cui prestavano culto speciale, né mancavano i pregiudizii e le superstizioni, che anche oggi, dopo tanti secoli di civiltà, non possono essere eliminati del tutto.
Divenuti sudditi dei Romani, ne seguirono i costumi e la religione.
Caduto l’Impero Romano, cadde anche la fede pagana, perché divulgatosi il Vangelo di cristo, i Calabresi e tutti gl’Italiani divennero cristiani, ed ogni paese scelse il proprio protettore in un santo di loro fiducia e devozione. I Sandonatesi, lasciate le deità. Dei pagani, verso il decimo secolo divennero cristiani e scelsero come loro protettore San Donato, vescovo d’Arezzo, il quale viene festeggiato co
n molta devozione ogni anno ai sette di Agosto. Sono anche devoti della Madonna dell’Assunta, la quale nel 1859 salvò il paese e le campagne adiacenti, dalle cavallette che devastavano gli alberi e si divoravano il grano, ed infettavano l’aria con un puzzo ammorbante. Dal 1859. la devozione verso questa immagine è aumentata, ed ogni anno ai 24 di maggio, anniversario della grazia ricevuta, si festeggia da tutto il popolo Sandonatese con grande pompa e devozione. La popolazione attuale di San Donato Ninea è di 4000 abitanti.
CAP. IV
La Calabria sotto i diversi padroni
La Calabria come tutte le altre parti d’Italia ebbe a soffrire la tirannia di parecchi padroni, che la sfruttarono e ne malmenarono gli abitanti. I primi ad impossessarsi delle nostre terre furono gli Osci od Opici, chiamati Aramei, i quali dopo la Crisi Attilantica, che aveva reso impraticabili le loro terre, vennero all’Asia minore, e di là pian piano presero i monti della Calabria, estendendosi dal golfo di Santa Eufemia, a Squillace fino alla Sila, e si governarono con leggi semplici e senza disciplina.
Agli Osci successero gli Enotri-Pelasgi, popoli dello stesso stipite, verso il 2540 anni dopo la creazione del mondo, i quali vi apportarono nuove leggi e costumi, e furono i primi ad innalzare la Calabria a forma di regno costituzionale; presero il nome di re, e si mantennero tali fino a che tutta la Calabria non si mutò in repubblica. Di Re di Calabria abbiamo Brezza figlia di Ercole. Zeleuco Re dei Lo cresi. Antistene re dei Reggini e molto tempo dopo, Ruggiero, il quale ebbe il titolo di re di Sicilia, Calabria e delle Puglie.
La Calabria divenuta potente, lasciò il nome di Regno e divenne Repubblica, forse per imitare i Romani; ed abbiamo la fiorente repubblica di Locri, di Reggio, di Cotrone, di Sibari, di Turio e dei Bruzii, le quali in tempo di guerr
a armavano fino a trecentomila soldati, e per gli affari del governo politico ed amministrativo, radunavano del Senati con mille Senatori. Questo stato di cose però non durò molto tempo, perché cominciarono a farsi guerra l’una contro l’altra, poco pensando alle conseguenze future. Cotrone distrusse Sibari, i Lo cresi e quei di Reggio andarono contro Cotrone, i Bruzii contro Turio, e tutte queste discordie fecero si, che Roma, con la scusa di rendersi paciera tra le une e le altre si rese padrona della Calabria, vi stabilì presidii, e vi creò dei municipii, nel 272 av. C. e 481 di Roma, dando la facoltà alle sottoposte Repubbliche di crearsi i magistrati, e governarsi con leggi proprie. Divenute amiche dei Romani, le discordie finirono, ma dopo poco si riaccesero di nuovo, perché si volevano rendere indipendenti come erano prima, ma i Romani le sottomisero, e d’amica ch’era una volta, divenne padrona dispotica e le trattò da serve. Gl’Imperatori che governarono la Calabria furono molti, cominciarono con Ottaviano Augusto e finirono con la morte di Teodosio, anno 395 di Roma.
Intanto Teodosio con lo starsene di continuo in Costantinopoli fece un gran male all’Italia, perché, molti popoli barbari visto che l’Imperatore era lontano da Roma, scesero in Italia e s’impadronirono della Calabria. I primi barbari a vedersi furono i Goti condotti da Alarico. Alarico varcate le Alpi Giulie piombò in Italia. Sconfitto in Pollanca, indietreggiò; ed acuito lo sdegno venne di nuovo, e di quante città incontrò nel suo fatale passaggio, se ne impadronì. Venuto a Roma la resa sua, la depredò e la lasciò un mucchio di rovine, poi passò a Napoli, e da ultimo in Calabria; se ne rese padrone, e dalla Sicilia passò a Cosenza, dove morì appena giunto, e fu sepolto nel fiume Busento con tutte le sue ricchezze. Ad Alarico successe Ataulfo e a questi Genserico, il quale dopo di aver occupata Roma e tutta l’Italia, lasciò tutto all’Imperatore Odoacre; ma anche questi vi durò poco, perché venne ucciso da Teodorico Ostrogoto. Morto Teodorico nel 526, successe al trono Amalasunta sua figlia, la quale governò poco, perché morto l’erede al trono, tutto il suo regno passò a Giustiniano, il quale nel 535, mandò Belisario ad occupare la Sicilia, la Calabria e il resto d’Italia. Nell’anno 568 la Calabria venne nuovamente sottoposta a nuovo padrone; perché morto Giustiniano, successe all’Impe
ro Giustiniano II suo figlio e Sofia sua madre, la quale perché in discordia con Narsete, suo capitano, chiamò Alboino Re dei Longobardi a difendere l’Impero. Di fatti Alboino nel 569 scese in Italia con duecentomila soldati, e trovatala divisa in Ducati; nuova forma che l’impero di oriente le aveva voluto dare; divenuta la derisione del mondo, fu di facile conquista, e divenne la sede dei Longobardi, i quali governarono 76 anni. Morto Alboino, successe al trono Clef, il quale vi durò poco, perché il popolo non contento del suo governo, lo detronizzò e divisero il regno in trenta Ducati.
Ma neanche questa forma di governo piacque, ed elessero a nuovo Re Autari, il quale morì dopo poco, e Teodolinda, sua moglie, sposò in seconde nozze Agilulfo. I Longobardi, intanto, divenuti un popolo potente, cominciarono ad essere dispotici e poco curanti del Papa, tanto che Stefano II dovette chiamare dalla Francia il Re Pipino, il quale scese in Italia mise a dovere i Longobardi, e Leone III, in premio del servizio ricevuto, nell’anno 800, nominò Carlomagno Imperatore di Francia. Questa nomina dispiacque assai all’Imperatore di Costantinopoli, Nicefore, ed allora, per non succedere discordie, si stabilì che per l’Oriente l’Imperatore fosse Greco, e per l’Occidente Francese.
II.
La Calabria con questa divisione divenuta provincia dell’Impero di Oriente, cominciò a risentire la tirannia dei Saraceni, i quali passati dalla Spagna in Calabria, la cominciarono a devastare e a derubarla. “Difatti nel 1570 i Saraceni, subito che si furono impadroniti della Sicilia, giusto come dice il cronista Andrea Preti, fecero la prima correria nella Calabria, di cui per tre secoli furono il tormento. Traevano donne captive, e i prigionieri, incatenati, dopo mille servizie, uccidevano. Nell’884 tutta la Calabria, come notò il Protospata, fu invasa e taglieggiata dai Saraceni. Nell’896, collegati con Greci dissidenti, irruppero dai confini del Salernitano in Calabria e occuparono Bisognano, Argentano e Rossano fino a Potenza. Dal che apparisce che questa nostra povera terra fu vittima e oppressa soventi volte del bottino e del nefasto imperio de
i Saraceni, avversarii di ogni bene, e indimenticabile flagello di un’età fecero. Nel 921 Calabresi, Salernitani ed Amalfitani si allearono e si ordinarono a sforzo di guerra. Si combattè aspramente in Val di Crati, presso S. Marco, i Saraceni furono disfatti e i pochi che avanzarono al macello, si rifuggiarono a Reggio. Allora si ricuperò Cosenza, Catanzaro, Squillace ed altri luoghi fra cui San Marco e Bisognano, ripresero poi da Arcimelao, principe dei Saraceni (1) Chron. Cavaliere Peregrin. Tom.3. pagina 285, 289. Le sconfitte, anziché umiliarli, ne temperavano l’audacia e la forza. Però dopo una strepitosa vittoria riportata da essi, contro Ottone Imperatore d’Alemagna nel 968, s’insuperbirono e misero a guasto l’intera Calabria fino ai confini di Salerno, prendendo a viva forza Bovino, Oria, Nardò, Cassano, Aderenza, Matera ed altri castello; cinque giorni dopo, nel di della natività della Madonna, Ottone assalì i saraceni, con tutto il suo esercito, nel piano di Superano vicino san Marco, l’inseguì fino a Bisognano, e li disfece pienamente. Vinti, ma non domi, condotti dal loro Califfo Sairo nel 1009, rotta la stregua, i saraceni tornarono sul principato di Salerno, e insignoritesi di alcuni luoghi di Puglia, si rovesciarono poscia su la Calabria, ed impadronironsi nuovamente di Cosenza e Bisignano. Nel 1020, guidati da Raica, fecero molta strage di cittadini in Castro Mandano, in Vergusio, ed in Bisognano, novellamente perduta e novellamente presa (1) Salvatore Cristofaro, Cronista di S. Marco. Scongiuratoli pericolo dei saraceni, vennero i Normanni, i quali fecero le prime conquiste nelle Puglie, non avendo potuto i Greci salvare per sé altro che Taranto, Brindisi e Bari. I Normanni in numero di settecento fanti e di cinquecento cavalieri, guidati dai figli del conte Tangredi di Altavilla, Drogone, Guglielmo Braccio di ferro ed Unfredo, venute a giornate, sbaragliarono e posero in fuga sessantamila Saraceni, lasciando ai Greci alleati, la cura d’inseguirli; dopo questa vittoria pensarono a rendersi indipendenti, e conquistate le Puglie, si rivolsero verso la Calabria, e ne ebbero il possesso dal Papa Leone IX verso il 1053.
Ai tre mensionati fratelli successe Roberto il Guiscardo, il quale aggiunse alle terre conquistate anche Squillace e Reggio, e lasciato il titolo di Duca, prese quello di re di Puglia, Sicilia e Calabria, che poi passò a Ruggiero suo
fratello, e da Ruggiero a Simone suo figlio e da questi a Ruggiero II, a Ruggiero III, a Guglielmo I, a Guglielmo II, a Tancredi I, a Guglielmo III e a Guglielmino I verso 1189. Al dominio dei Normanni seguì quello degli Svevi che durò dal 1194 fino al 1255. “Battagliero e religioso è il carattere di quest’età, e di questa sono fedeli espressioni le Crociate, sebbene ci offra una portentosa mescolanza d’idee e di credenze, di colpe e di virtù, di fedi inestinguibili e di defezioni codarde, di costumi vergognosi e di magnanimi eroismi. Federico II l’Imperatore più colto del medio evo, trasse a precipizio la propria casa e l’Impero: gli Svevi credettero consolidarsi con divenire sovrani d’Italia; ma la questione coi papi cambiò di carattere e attinse l’indipendenza o la servitù d’Italia: l’acquisto di Sicilia, invece di assodare quella potenza, la fece temuta, e i popoli esultarono, quando l’infelice rampollo, degli Hohenstaufen, Corradino, perì sul palco erettogli dalla avida ambizione”. I tempi erano mutati, e tutti erano travolti dalla corrente avvolgitrice, dal dispotismo, dalla tirannia e dalle discordie tra popolo ed Impero, che per un secolo e mezzo logorò, ed indebolì tante energie che sarebbero state utili a rinforzare la fede e la legge che migliora le condizioni delle masse.
In tanto sfacelo d’idee, una cosa rese celebre il secolo dei comuni e di Federico II.: l’ammirazione degl’Italiani verso i Troveri e i Minnesingeri, anche quando celebravano eroi antichi. Questa nuova letteratura venne dalla Provenza portata dalla voce melliflua ed armoniosa dei Trovatori, e prese stanza nella Corte di Federico II., dando, principio all’espressione pura ed italiana con la Divina Commedia di Dante Alighieri. Della casa Sveva i primi a prendere il dominio delle due Sicilie e del Napoletano, furono Enrico VI. Imperatore, Corrado, Federico II. Imperatore e Manfredi, il quale si ribellò al Papa, ed Urbano IV. Per renderlo ubbidiente, chiamò dalla Francia Carlo d’Angiò. Venuto in Italia nell’anno 1266, fece guerra ai Manfredi e a Benevento lo vinse e l’uccise, e così si rese padrone di Napoli e delle due Sicilie. E finì la casa Sveva. I nuovi padroni di Calabria si chiamarono: Carlo III., Ladislao, Giovanna II. Non avendo eredi legittimi, scelse come successore del trono Alfonso d’Aragona, il quale prese il titolo di re di Napoli e delle due Sicilie. I nuovi re di Calabria di casa d’Aragona furono: Alfons
o I., Ferdinando I., Alfonso II., Ferdinando II. Ed il figlio Federico, anno 1469. Distrutta casa d’Aragona, la Calabria e le due Sicilie passarono sotto la dominazione dei re di Spagna, fino al 1708 e degli imperatori di casa d’Austria sino al 1718 in Napoli e Sicilia; di questi sino al 1718 nella sola Napoli; Vittorio Amedeo II. Di Savoia Re di Sicilia, anno 1713-1718, e di nuovo in Napoli e Sicilia sino al 1734. Dopo di questo tempo passò alla casa di Borbone con Carlo III e Ferdinando IV, anno 1759. Dopo il 1759 successero diversi mutamenti; la Francia abbatte la Monarchia, uccide il Re Luigi XVI e proclama la Repubblica. Napoleone I, intanto si acquista grande nomea, e dopo dieci anni viene nominato Imperatore di Francia.
Col trattato di Campoformio, poi, tutte le cose mutarono.
Il Piemonte fu ammesso alla Francia, La Lombardia e l’Emila formarono la repubblica Cisalpina e Cispadana, Genova e la Liguria la Repubblica Ligure, la Toscana passò sotto un Commissario francese, a Roma, fatto prigioniero PioVI, venne proclamata la repubblica Romana, a Napoli fuggito Ferdinando, in Sicilia, venne proclamata la Repubblica Partenopea, Venezia ed il Veneto vennero vendute all’Austria.
Durante il regno di Napoleone I anche la Calabria si mantenne sottoposta al grande Imperatore, ma fatto prigioniere dagl’Inglesi nella famosa battaglia di Waterloo, 1815, gli antichi ordinamenti degli stati mutarono, e al Congresso di Vienna, 1815, i maggiori potentati d’Europa, riunitesi nella Santa Alleganza, diedero all’Italia una nuova configurazione politica. Il regno di Piemonte e Sardegna con la Savoia, Genova e la Liguria vennero resi a Vittorio Emmanuele I di Savoia: il Lombardo veneto restò all’Austria; il Ducato di Parma e Piacenza fu dato a Maria Luisa, moglie
di Napoleone; il Ducato di Modena e Reggio a Francesco VI d’Este; il principato di Lucca a Maria Luisa di Borbone; il Principato di Massa e Carrara a Beatrice d’Este, madre di Francesco IV; il Ducato di Toscano a Ferdinando III di Lorena; lo Stato ponteficio a Pio VII; Napoli a Ferdinando I Borbone: S. Marino fu lasciata indipendente: Monaco e mentone alla faniglia Grimaldi, sotto la protezione della casa di savoia; il Canton Ticino passò alla Svizzera; la Corsica alla Francia; l’Isola di Malta agl’Inglesi.
Dal 1820 fino al 1860 il Napoletano e le due Sicilie restarono sotto la casa Borbone; si liberarono verso il 1860 per opera di Garibaldi, il quale sbarcato a Marsala l’undici Maggio dello stesso anno, dopo di aver battuto l’esercito Borbonico a Calatafimi, a Palermo e a Milazzo, passato lo stretto, liberata la Calabria fine a Napoli, dove entrò trionfalmente il 29 ottobre 1860, incontrato Vittorio Emanuele II a Teano, lo salutò Re d’Italia, e la nostra Calabria lasciata per sempre la casa Borbone, è diventata provincia italiana.
CAP. V
Miniere diverse di Calabria
La Calabria, oltre ad essere una regione ricca di flora e fauna, abbonda di minerali diversi. Il Barrio, il Marrafioti ed il Fiore dicono che vi sono miniere di oro, d’argento, di ferro, di piombo, di sal fossile, di pirite o marcassite, di calcanto o vitriolo di rame. Di azzurro di montagna e propriamente i minerali di ferro a Tortona, di piombo a Scalea, di ferro, di cinabro, di vitriolo di rame, di sal gemma e di carbon fossile a San Donato Ninea, di vitriolo di rame a Sant’Agata, a Sangineto, a Montalt
o, a Pietrafitta, a Belsito, a Donnici e a Pizzo; di sal gemma a San Vincenzo, a Montalto, nel Miliano della Sila, a Pietramale, a Gioiosa a Castelvetere, a Santa Caterina, a Cerenzia, a Verrine e a Rossano; di Manganese a Rende, a Brancaleone e a Cassano al Ionio; di miniere di oro a Morano calabro, a Saracena, a Roccella, a Polia, a Sino poli; di vitriolo di Rame a: Martorano, a Stilo, a Gimigliano, a Taverna, a caloveto e a Rose; di miniere di smeriglio ad Angitola e al Pizzo; di miniere di sale a Lungo, ad Acquaformosa e a San Donato di Ninea; di oro, argento e di ferro ad Altomonte; di fero a Stilo e a San Donato Ninea; di oro e d’argento a Squillace; di argento a Longobucco; di oro, argento e piombo a Cosenza; di oro e ferro a celico; di piombo ed oro a Grotteria; di azzurro di montagna o idrato di rame naturale ad Altomonte, a San Donato Ninea, a Martorano e a Catanzaro; manganese ossidato a Scalea; di pirite idrorgirocuprica o di rame a San Donato Ninea e a Rossano e di zingo a Longobucco. Nel monte Mula di san Donato Ninea si trovano i berilli, il cristallo perfettissimo ed il sale terrestre. San Donato Ninea detta Conca dei metalli, è un paese pieno di minerali preziosi. “Nel 1700 Gaetano Boccia, Giuseppe martelli e Nicola Fera, ottennero in feudo dal governo le miniere del mio paese, con la facoltà di estendere gli scavi di esse, fino alla circonferenza di 20 miglia, e ne presero possesso in Maggio dell’anno 1705 al 1736, oro, argento, rame, mercurio e cinabro. Prima nel 1705 ne cavarono il rame greggio, che produsse un tre quintali, 30 chili e 67 libbre e mezzo di rame perfettissimo, che fu deposto nella regia zecca di Napoli.
Nell’anno 1706 aprironsi due grotte e si costruì una fonderia per il lavoro delle materie metalliche nella regione detta Logge, sopra l’attuale ponticello dello stesso nome. Sotto gli auspicii del governo vi lavorarono per più anni 100 forzati, vegliati dal direttore Insquall, e di varii ufficiali Austriaci. Nel 1737 i lavori si sospesero per la freddezza della real camera di Santa Chiara, per il profitto, per l’ingordigia e le angarie del Duca di San Donato, per l’infedeltà degli impiegati, per mutamenti politici, pei litigi sopravvenuti, e per la poca espertezza e perizia dell’arte, e non vi si pensò più. Nel 1838 il francese Brun studiò per quattro giorni la natura dei nostri monti, fece diverse escavazioni e si portò in patri un quintale di minerali diversi.
Nel 1835 Leopoldo Pilla trovò in San Donato Ni
nea la pirite idrorgirocuprica o di rame (1) Leopoldo Pagani –Studi sulla Calabria. Nel 1890 una società fiorentina, con a capo l’ingegniere Barbarano, comperarono la miniera di cinabro che si trova sopra del paese, nella parte denominata Bocca della Cava; cominciata l’escavazione vi trovarono un quintale di cinabro.
L’escavazione sarebbe continuata, ma dopo soli due anni morì il Barbarano, e d’allora in poi ogni cosà finì. Nel 1912, il Sacerdote Roberto Campolongo fece venire da Milano l’ingegniere Carlo Pfaltz e A. E. Pernotti da Napoli per verificare nuovamente le miniere del paese, ed entrambi gl’ingegnieri trovarono il cinabro, il vetriolo di rame, il ferro e il carbon fossile.
Oltre alla miniere di cinabro, San Donato Ninea ha una grande quantità di ferro che si trova in Rosaneto, proprietà del Barone Campolongo, nella parte detta Vena di Vertoletta: nel 1860-63 se ne fece escavazione, e il ferro che se ne estrasse, venne purificato dallo stesso Campolongo, ma visto che le spese superavano il guadagno, si sospese ogni cosa, e d’allora in poi non vi si ci pensò più.
Si trova ancora il sale come quello della salina di Lungo, nella montagna denominata Tavolato, ed è sale purissimo, tanto che nel 1848 i Sandonatesi, approfittando della rivoluzione, andati, sopra la montagna, cominciarono ad scavarne una grande quantità e se ne fecero delle provviste; ma avvisate le guardie del governo Borbone, la miniera fu chiusa con terra.
Si trova ancora il carbon fossile, veramente lignite, nella regione denominata Molaro e spesso se ne vedono dei grossi pezzi, specie quando vengono dei forti temporali. Abbiamo ancora delle cave o miniere di pietra di gesso e di tufo ed il vitriolo nei pressi del paese, nella parte detta Gafaro o fiumicello della Sellata. Il vitriolo è attaccato alla terra e le donne del paese, spesso, quando difettono di fili nero, vanno in quel luogo, scavano una fossetta nella stessa terra. Vi mettono dell’acqua e vi tingono il filo bianco in nero; il filo deve essere prima immerso in una pozione di acqua calda con Lignello. Ora, come è San Donato Ninea tutto pieno di miniere, così sono anche gli altri paesi della Calabria, che escavate, porterebbero la ricchezza, ma a tutto questo non si ci pensa, ed i calabresi vanno ad arricchirsi nelle Americhe mentre avrebbero la ricchezza nei propri paesi. Sotto Carlo III di Birbone, in Calabria erano escavate 57 miniere, delle quali 23 di argento nella contrada di Bisunti, di Stilo, di Castelvetro, di Badolato, di Mesuraca, di Aspromonte, di Reggio, di San Giovanni in Fiore e di Longobucco. Di più si ha fondata certezza, che vi è dell’oro in Precacore e roccie di rubino e topazio nel Pizzo e in Amantea. In Stilo e in Reggio si trovano ricche ferriere, e a Squillace, in Monterosso, si trova roccia di grafite. A Lungo si trova la miniere del sale, una delle più grandi di Europa,
non inferiore a quella di Wielizcha in Polonia, ed a quella di Cordova in Ispagna. Anche i fiumi e i monti della Calabria sono pieni di minerali di tutte le specie. Omero, Ovidio, Tullio, Strabone, ricordano le miniere di Temesa o Tempsa, ora Cetraro, che ai tempi di Strabone furono abbandonate, mentre gli scrittori calabresi ricordano quelle di ferro nella Sila, di Stilo, di Castelvetro e di Grotteria, oltre quelle di zolfo e di piombo nelle vicinanze del Tronto, e altre di varii metallo in San Donato Ninea.
Il fiume di Castelvetro, vicino a Campoli, porta minerali di rame, di piombo argentifero, di ferro, solfuri di rame; il fiume di san Donato Ninea, denominato Rosa, porta ferro, cinabro, vitriolo, dei pezzetti di quarzo, di schistohorniblenda, di horiblenda, di stratile e di talco comune.
La Calabria abbonda di minerali, che in mano degli Inglesi frutterebbero molto, mentre da non si guardano con noncuranza, ed andiamo altrove a cercare la ricchezza, mentre l’abbiamo nei propri paese.
Roberto Campolongo