Del maiale non si butta via niente

Luigi Bisignani

L’uccisione del maiale, generalmente si ‘celebrava’ in vecchi casolari di campagna o di montagna, dove il fuoco scoppiettava in un grande focolare. Un rito che si ripeteva ogni anno, nel periodo tra dicembre e gennaio, i mesi più freddi. Ovvero il tempo ideale per sezionare la carne, conservarla e per far asciugare gli insaccati al freddo dell’inverno.
Una squadra ben collaudata di uomini, forti e pratici del rito sacrificale, braccava l’animale che ormai aveva superato il quintale. E, una volta immobilizzata, la povera bestia passava a miglior vita grazie alla maestrìa degli uomini addetti al trapasso dell’animale.
Compiuto il primo passo, generalmente all’alba, si procedeva con la lavorazione non stop delle carni. Il ‘caro estinto’ veniva lavato con acqua calda. La pelle esterna ripulita per poi essere sezionata e tagliata per fare le cotiche. Le budella lavate e messe a macerare con limoni e arance per levare il cattivo odore. Lavaggi continui per consentire poi il riempimento con la carne lavorata e, quindi, per la produzione di salsicce, soppressate, capicolli e pancette arrotolate.
Altro momento topico era quello della ‘CAVUDARA’: in un grande calderone pezzi di carne e cotiche bollivano per ore. Dopo la lunga cottura si ricavava il grasso, lo strutto, da conservare nei cosiddetti salaturi, antichi vasi di terracotta. Dalla “CAVUDARA” si prendevano i rimasugli rimasti per fare la salimora. Un condimento sapido, a base di ciccioli, grasso e sale. La salimora era impiegata per le pitte ripiene e anche per la preparazione di primi piatti come la pasta col ragù o con i fagioli.

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