I’ càstàgni da ieri ad oggi

Luigi Bisignani

E sempre un piacere ricevere  e pubblicare  le ricerche i Minucciu.

Minùccièddhubbìcùntadi: I’ càstàgni;  d’òtièmpùàntìcuàrijuòrninuòsti

 

 

A’ càlàbria ghèd’àcchjù rìcca i vuòschj ppìcchì ccìnnì sù ‘ncìrca nù miliùni i tùmminàti (3.870 ettari circa) chì su scàmpàti ari dànni cà,sèculi e ‘nsèculi,gànu fàttu tùtta à ggènti chì ntè  tèrri nòsti ccì vìniàdi ò cì pàssàvadi ppì fà guèrri, distrùggi, àrrubbà, pìtrènni(cùmu ù pàpa a ròma).

I’ tèrri ì sàntudunàtu gànu sùppùrtàtu i stèssi dànni dò rièstu dà calàbbria e quìru chi vàju scriviènnu vàli i pùru ppù pàìsi nuòstu

Durante il medioevo lo sfruttamento della maggiore risorsa del nostro territorio, il legname,si è accentuato e cito ad esempiole richieste di travi fatte nel 599 per lacopertura della basilica romana dei SS. Pietro e Paolo.

Verso la fine del VIII secolo vennero richieste travi per la riparazione del tetto di S. Paolo fuori le mura (sulla cui vicenda,per questo giornale, ho scrittoNùstuòzzu i sàntudunàtuàRòma”)

Durante la dominazione angioina, la Calabria ha fornito legname per la flotta regia e per i bisogni della corte(è documentata la richiesta di Carlo d’Angiò di 400 travi per la costruzione di Castelnuovo di Napoli)

Fu considerevole il prelievo del legno calabrese per vari usi e destinazioni, (combustibile, materiale da costruzione, materia prima per attrezzi),ed i nostri artigiani del legno, sin dal XIII secolo, emigrarono a Bari ed a Firenze.

Dionigi di Alicarnasso nella Sila, ha descritto vari alberi [abete, peccio (specie scomparsa), pioppo nero, frassino, faggio) fra i quali è assente il castagno]

Annota lo storico “”Dopo la resa ai romani (I sec. a.C.) i Bruzi furono costretti a cedere ai romani una metà della loro regione montana che è detta Selva, piena di legno atto a edificazioni di case e navi e qualsivoglia uso a cui il legno si presta. In questa zona infatti vediamo in quantità rilevante l’abete che si alza dritto verso il cielo, il peccio, il pioppo nero e il frassino e il pino e il famoso faggio le cui linfe sono largamente rinfrescate dai ruscelli scorrenti fra i boschi: in una parola ogni genere di alberi i cui rami intrecciati formano folte compagini e ombreggiano il monte a ogni ora del giorno. Gli alberi posti meno lungi dal mare o dai fiumi sono tagliati a fior di terra e col fusto integro mandati giù ai più vicini scali marini: la quantità che se ne aduna basta ai popoli della penisola italica per la costruzione di navi e case. Il legno degli alberi proveniente da paesi lontani dal mare e dai fiumi invece è tagliato a pezzi, e si usa per la fabbricazione di remi, lance, armi diverse e vasi domestici; esso vien portato giù dal monte a spalla d’uomo. La maggior parte di quegli alberi poi trasuda una resina molto pingue, e fra quelle note ai mercati la più odorosa e gradevole, chiamata pece bruzia, da cui i romani traggono annualmente notevoli rendite””

Notizie documentate sul castagno (del quale non si può escludere la presenza in tempi più antichi) risalgono agli ultimi secoli del medioevo quando se ne registra una maggiore diffusione.

In Calabria la coltura generalmente inizia dai 500-600 m, è più consistente sugli 800 m. ma può estendersi fino ai 1300 m. (San Giovanni in Fiore (1125 m.), Spezzano e Aprigliano (1300 m.), Aspromonte (Sant’Agata, 1250-1280 m.)

La capacità di attecchimento della pianta del castagnoè notevole ed in alcune zone vegeta al limite dei vigneti (200 m. slm, es. il pendio tra Scilla e Bagnara)

Dopo la Toscana, la Calabria era fra le regioni italiane dove si produceva la maggiore quantità di castagne e le zone più produttive risultavano ubicate nei margini silani e nella catena paolana (San Donato è ubicato nel versante ionico di detta catena montuosa), con una resa di 12 q. ad ha contro i 7-8 q. di zone più a sud

E’ bene precisare che sulla coltivazione del castagno durante il medioevo, la documentazione è piuttosto scarna e non consente di tracciare un quadro circa la sua diffusione, né offre dati sufficienti per valutare qualità, quantità e tipologia del prodotto. Abbiamo indicazioni sporadiche di luoghi di coltivazione o usi del castagno e lenarrazioni del cinque-seicentosulla Calabria (Barrio, Quattromani, Fiore) ci mostrano il castagno attestato un po’ dovunque: a Grisolia, a Saracena, dove le montagne abbondano di «abeti, faggi, quercieglandifere, castagne ed ebano rosso; con ogni altra spezie di albori», a San Donato, ad Altomonte, a Motta Folono, a Melvito, a S. Marco, a Faggiano, a Lattaria), a Menecino, a Nocera, luogo che «abbonda d’ulive di quercie, di noci, di castagne, di suberi, e d’ilici», a Vallelonga, ad Arena, a Carida, a Preiezzano, a San Giorgio, a Cosoleto, a Mammola, le cui montagne «abbondano di caccie di cignali, capri, lepri, agliri, e simili; come anche di ghiande per gl’animali; abbondano anche di castagni e di noci», a Castelvetere, a S. Caterina, a Cardinale, a Chiaravalle, a Gimigliano, a Taverna, a Mesuraca, a Campana, a Bocchigliero, a Noia».

Alcuni toponimi quali Castagna, Castagneto, Castagnitello, Castanea, S. Maria la Castagna, testimoniano ancora oggi, luoghi che in passato hanno visto il territorio caratterizzato dalla sua coltivazione

Il castagno nella nostra regione è attecchito con lo scopo di sfruttarlo per trarne legname mentre appare secondario l’impiego dei fruttia scopi alimentari

È probabileche all’inizio dell’età moderna il castagnosi stato sfruttato come albero da legno e solo più tardi sia stata posta in essere una serie di cura e innesti delle piante per valorizzarne il frutto a scopi alimentari e commerciali. Non è escluso che all’inizio delle il castagno era soprattutto un albero da legno e solo in un secondo momento abbia avuto interesse per i frutti selvatici, comunque destinati all’alimentazione animale.

La scarsa importanza del castagno come albero da frutto si ricava da vari documenti.

-1) Il duca di Monteleone, nel 1584, possedeva un giardino in agro di Motta Filicastro, dove accanto a granati, mandorle, fichi, ciliegi, olivi, peri, limoni, nespoli, cotogni, gelsi e altri alberi da frutta, figurava un piede di castagno

-2) Pur di ricavare legname, negli stessi anni, si procedeva a tagli indiscriminati, così come in un grande castagneto nel territorio di Arena, che era stato tagliato due volte nel giro di cinque anni «sì che vi sono rimasti pochi piedi che portino castagne»

-3) L’Erario che esigeva le entrate per conto del Duca di Seminara, nel 1573 elencava l’affitto di terraggi, la vendita dei «fondi dei gelsi», la coltivazione di vigne e giardini, il dare a gabella olivi, mulini e trappeti, mentre per i castagneti non si fa alcun cenno al raccolto ma ci si limita solo alla vendita del «ligname de li boschi di castagna»

-3) Nel 1540 il conte Spinelli acquista proprietà nella zona di Seminara e nella descrizione si legge che il conte vi ha piantato castagni «et in ditto territorio per nce essere pastinato per tutto decti castagni non se semina, et de ditti piedi de castagni per essere piccoli non se havefructonesciuno, declarando che li dicti castagni son pastinati in lo terreno che era vacuo»

Probabilmente la fase di sviluppo demografico del XVI secolo, piuttosto che determinare un allargamento dello spazio destinato al castagno da frutto, abbia invece recato, come sostiene anche Galasso, «un contributo rilevantissimo al plurisecolare processo di rovina del suo patrimonio boschivo, segnandone una tappa decisiva».

Disboscamenti «selvaggi» relativi a castagneti, già nella seconda metà del XV secolo, sono annotati nel Liber visitationis, allorché si faceva notare che il monastero di San Martino, amministrava male i suoi castagni, perché ne vendeva il frutto anzitempo e non al giusto prezzo, facendo procuratori i carpentieri che «incidebantmultascastaneasmonasteriifaciendodugas et alia eorum necessaria»

Fra i redditi del monastero, valutati da 100 a 80 ducati, rientravano le castagne (assieme a ghiande, grano, orzo, lino e una serra) e si faceva rilevare che, a causa della concessione di terre per seminare, «plus minuitredditumdictimonasterii», anche perché «fecitdestruy omnes castaneas» —-4) Le castagne vengono elencate fra i redditi di svariati monasteri.

-5) Nei pressi di Cosenza, nel 1188 è registrato un «castanitellum unum quod est ubiRecalenduladicitur» e diversi sono i castagneti registrati nel così detto «Inventario de la terra de Mayeda» (apprezzo dei beni fondiari esistenti nell’agro non soltanto di Maida), ma anche di altri comuni della Calabria centro meridionale, fatto eseguire da Ferrante I e risalente al 1466.

-6) Nel casale di «Czimbariu» vi è «foresta una nominata la Razzonata che qui fa castangna» (pare questo l’unico cenno ad un castagneto da frutto); diversi castagneti annotati nella terra di Santa Agrestina: «… certi castangniti de la terra et casali pertinenti alla dieta baglia, czo è un castangnitoalla terra ad Varanico; item duicastangnitiduve si dice Rumbulo; item uno altro ad Castalo (?) vicino allo Casali di Apedarnuli».

-7) Nell’inventario della terra della Fiumara di Mura vi erano «certi boschi di castangni et de agliandi» e «boscho uno de castangnii, dove se dice Gennachi».

Oltre qualche notizia sui luoghi di coltivazione, non è stato possibile rilevare ampiezza della produzione (legname e frutto) salvo alcuni dati frammentari e poco indicativi per l’anno 1644

e relativi alla produzione nella zona cosentinastimata 40.000 tomoli di ghiande e castagne.

Nel computo non è stato tenuto però conto del consumo e per una popolazione dei Casali di circa 35.000 abitanti.

Giovanni Fiore, alla fine del 1600, notava che a Gimigliano si raccoglievano ogni anno 2800 tomoli di castagne di cui 10.000 tomoli nel solo territorio di Taverna. Lo stesso Autore, nota la diffusa presenza di castagneti in Calabria e rileva ben poche zone di castagneti innestati: Motta Folono, dove «suntcastaneta, sed et castaneaeinsitaesunt», Faggiano che «exuberatcastaneisinsitis», Lattarico le cui «castaneae ex insitisarboribuslaudantur», Menecino dove sono «castaneaeoptimae, quasinsitasvocant».

A fine del Settecento, Giuseppe Maria Galanti scriveva che «nelle Provincie delle Calabrie, alle falde delle montagne, si trovano castagni eccellenti»; però, nel suo Giornale di viaggio in Calabria (1792), metteva in risalto lo scarso numero di castagni e che «questi alberi non usa di innestarsi».Descriveva castagni a Rossano, nel marchesato di Catanzaro, a Soriano, a Laureana, in Aspromonte, a Bagnara, dove si faceva commercio di legno, a Rogliano, Scigliano, nelle contrade di Cosenza, a S. Fili, a Paola e San Lucido, dove però faceva notare come, a differenza dei luoghi dell’entroterra, i castagni in marina davano pochissimo frutto»

Fra XVIII e XIX secolo la coltura del castagno era diversa rispetto a quella tardomedievale. Negli stessi anni un viaggiatore inglese notava «gli immensi alberi di castagne e querce» e la «foresta di castagni» attraversata nei monti del Cosentinolà dove gli alberi di castagno colpivano per le dimensioni raggiunte.

Vincenzo Padula, nel descriverele piante di castagno da S. Fili a S. Marco, scriveva che alcuni possono raggiungere i 15 metri di circonferenza «con cupognedov’entrano 3 persone a cavallo»

e così distingueva le varietà delle castagne a seconda delle zone di produzione: a Carpanzano in «ruggiole (reali), curce e ‘nzite»; a Malito in «lartura, valeriana (grossa), mancina (più copiosa)», indicando il castagneto col nome di «Linsita»; a Bocchigliero in «curde e ‘nzerte», e «nzerte» pure a Fagnano, Lattarico, Mendicino, Carolei, Domanico; a S. Donato in «cùrcia, riggiola, ‘nzerta, e pùrcigna»

Circa la varietà dei frutti, nel XVI secolo, sappiamo di castagneti innestati e di castagne «insitae» mentre alla fine del secolo successivo il Fiore descrive solo due specie «picciole che piegano al tondo, e lunghe che dicono inserte».

Per gli usi alimentari rimando al passo di Ughelli che, nella sua generale «DescriptioCalabriae», notava come la regione possedesse «passim castaneta, et ad mortaliumusum, et ad porcosalendos» È importante il ruolo della castagna nell’alimentazione dei suini, e quindi della presenza di maiali e diffusione di castagni che spesso vanno di pari passo.

Si citano pochi esempi a riaguardo:

-1) monastero di San Giovanni di Castagneto (fra i redditi erano comprese castagne, ghiande e contro 2 buoi e 1 cavallo vi erano 16 scrofe, 14 porcastri e 1 verro);

-2) nei casali di Cosenza nel 1644 si contavano ben 1800 porci

-3)le terre di Vallelunga, alla fine del XVI secolo, venivano descritte ricche di «silvaeglandiferae et castaneta ad porcosalendos opportune», così come Preiezzano, Castelvetere o Taverna, dove sono «castanetasaginandisporcis commode»

A fine del Settecento il Galanti annotava che le castagne si usano «anche per biada agli animali; delle castagne spezzate, che si danno agli animali, si raccolgono fino a 40 mila moggi nel territorio di Rogliano». In tempi più recenti, a Malvito, le castagne venivano seccate per gli animali e le donne le pestavano per le «purchie»ossia le scrofe; anche Longobucco era pieno «di castagne e di porcari».

Considerato cibo «povero», la castagna ebbe in Calabria un ruolo nell’alimentazione della gente di montagna, venendo a costituire, sotto forma di farina, un’importante alternativa al grano. Il pane di castagne è pane povero, ultimo nella gerarchia dei gusti alimentari che contraddistinguevano i ceti sociali (la povera gente non panificava con il grano).

Nel 1627 il vescovo di Martirano scriveva: «in hac Diocesi… gens haec in universum pauperrima est, paranssibipanemprò maiori parte ex farina cuiusdam generis frumenti quamgermanumvocant et ex farina castanearum et multis edam in locis ex farina lupinorum».

L’estrema povertà degli abitanti dei casali di Cosenza veniva sottolineata pochi anni dopo da agenti medicei che annotavano come le persone «per sparagnare magnano pane di germani»e questo era lo stesso pane che si consumava nel XV secolo nel monastero di San Giovanni di Castagneto, dove l’archimandrita non riusciva a trovare monaci; ne aveva trovato uno, ma era fuggito «quianolebatcomederepanem germani».

Si è ben lontani da quell’ideale di monaco bizantino, rappresentato, tra X e XI secolo, da S. Nicodemo di Kellarana, il qualesi nutriva con «povere castagne lesse, non beveva vino, né toccava acqua. Gettate in un piccolo tegame poche castagne, le cuoceva, e ne mangiavauna e beveva invece l’acqua del decotto, ringraziando con molta sottomissione il Signore»

La «gente bassa» consumava pane di castagne, di germano, di frumentone, di lupini e di ghiande, ma è documentata la cottura delle castagne nel forno. Nell’impasto del pane si mescolava un’ottava parte di germano alla farina di castagne, la cui raccolta alla fine del XVIII secolo veniva stimata in 40 mila moggi.

Il Padula annotava che le castagne venivano affumicate in apposite casette e che, una volta secche e sgusciate, prendevano il nome di «pastielli» (pìstìddhi in sandonatese); riferiva inoltre che durante l’essiccatura «in quelle caselle si fotte mentre il fuoco arde, e ‘1 fumo copre tutto».

Nel distretto di Castrovillari, invece, le castagne si infornavano o si seccavano con tutte le bucce e d’inverno venivano lessate «ad uso di patate»

La raccolta impegnava il lavoro di uomini e donne, che si nutrivano con castagne arrosto e lesse e questa circostanza fornisce l’idea di un quadro di lavoro, di fatica e di povertà che la castagna ha in qualche nodo contribuito ad attenuare ed alleviare.

Per taluni aspetti di questa ricerca sono tributario a Rosa Maria Dentici Buccellato, che sulla castagna in Calabria ha condotto una ben più documentata e corposa ricerca.

Marzo 2021

Minùcciu

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