Cùmu ghèramu:  Dìsìj e dìspiètti

Luigi Bisignani

In questo periodo Triste e Lungo,causa COVID,per passare un po il tempo ci vuole un po di lettura ,se possibile PAESANA,ed é proprio questa che l’amico MINUCCIU mi ha appena inviato e ve ne faccio parte.

Buon pomeriggio e buona lettura …

 

 

Cùmu ghèramu.    Dìsìj e dìspiètti

 

“Ntò còri tiègnu sèmpi, quìru munzièddhu ì pètri”.

Attribuita ad un vecchio emigrato rientrato in paese per la festa del patrono, la frase rivela “ù spìnnu”, il sentire che alberga in taluni dei sandonatesi che dal paese nativo vivono lontani.

Chi scrive appartiene al gruppo di coloro chì dò paìsi òn sìnni sù mài jùti, à quìri chì pùru sì nnì màncanu à tàntu (à truòppu tièmpu), ù spìnnu i pòrtadi ccà mènti sèmpi addhùnni su nàti e crisciùti, perché in loro non è sono mai tramontate le “memorie paesane”, quei ricordi personali, quelle cose che i petri dò munzieddhu conoscono, custodiscono a perenne memoria e quando è necessario, diffondono, fanno conoscere, restituiscono.

In periodo ì càrciru fùrzatu, attingo spesso ai ricordi di tanti anni fa, di quando ero molto ma molto giovane, quasi un bambino.

In particolare sto avendo memoria della più grossa novità degli anni attorno al 1950, l’apertura nel nostro paese di un cinema per iniziativa della famiglia Artuso, noti commercianti e negozianti sandonatesi.

Domenico De Paola, (“ppì paìsàni, Micuzzu i ziu Giùvànni i scherda”, che con gli Artuso era imparentato, avendone sposato una figlia), divenne anima del cinema ed i film, non solo li proiettava, ma li programmava e sceglieva con un occhio alla qualità, non trascurando il “gusto paesano”, tanto che l’andare al cinema nel fine settimana divenne consolidata abitudine.

I quàtràri presero familiarità con i film americani, il tanto da trasporre nei loro giochi trame e personaggi, specie se trattavasi di càvùbbòi e jìndiàni.

Gli adulti trovavano più interesse per le trame e le canzoni (ho ancora memoria di Verde Luna, canzone del film Sangue e Arena, cantata da Rita Hayworth, il cui testo veniva ricomposto ad arbitrio dalle compaesane che non ne ricordavano le parole).

La visione di film “ordinari” era intervallata da “capolavori” fra i quali rammento:

-Ombre Rosse del 1939 di John Ford con John Wayne;

-Vite vendute del 1953 di Henry-Georges Clouzot con Yves Montant (l’italo-francese Ivo Livi nativo di Monsummano Terme), seguito qualche tempo dopo da I diabolici del 1955 sempre di Clouzot

-vari film di Alfred Hitchcoock fra i quali Finestra sul Cortile, Nodo alla gola, Caccia al ladro)

La mia “fantasia musicale” rimase colpita da due colone sonore:

– “The Harry Lime Time” di Anton Karas; musica che accompagnava la trama de Il terzo uomo di Carol Reed girato nel 1949 con Orson Wells, Alida Valli, Joseph Cotten e Trevor Howard

– Il tema “Giochi proibiti” che accompagnava il film Sangue e arena, girato nel 1941 per la regia di R. Mamulian, interpretato da Tyrone Power e Rita Hayworth. Lo stesso tema sarà anche colonna sonora del film Giochi proibiti di Renè Clement girato nel 1952

Mentre per il tema di Harry Lime abbiamo certezza sul compositore, per Giochi Proibiti la faccenda è complicata perché sull’autore e sulla data di composizione non vi sono documenti probanti. La tradizione lo attribuisce ad un anonimo spagnolo, ma altri musicisti, quali Fortunio Bonanova e Vicente Gómez, se ne sono attribuiti la paternità.

La questione “paternità” delle musiche non ha impedito a chi scrive ed altri quàtràri sandonatesi di approcciarsi alla chitarra, le cui basi erano da imparare rigorosamente “ad orecchio” (chi impartiva le lezioni aveva seguito lo stesso metodo e non sapeva leggere uno spartito), mentre le armonie bisognava cercarsele da soli iniziando a pizzicare la corda più “piccola” (il mi cantino) e poi risalire le sei corde posizionando il polpastrello là dove serviva.

A spingermi a strimpellare la chitarra era la infantile speranza di poter imparare a suonare le melodie che mi avevano colpito ed usarle in qualche romantica ed amorosa serenata, proprio come era accaduto in Sangue e Arena.

Le esercitazioni di gruppo avvenivano quasi sempre nel “segreto” della cantina ì Mìcùzzu, anche lui patito per la chitarra.

Dopo mesi di incazzature, stecche, corde rotte e polpastrelli sanguinanti, finalmente eravamo riusciti a mettere assieme una versione decente, sia dell’Harry Lime time che di Giochi proibiti, sia di molti altri motivetti ballabili che andavano di moda in quegli anni di “ballo sulla mattonella” (siamo nel 1960 e dintorni)

Oltre i due succitati, fra i tanti brani imparati rammento:

Maria Elena edita nel 1959 dai Los Indios Tabarajas;

Hare you lonesome tonight del 1960 cantata da Elvis Presley e resa in italiano da Michele, con titolo Ti senti sola stasera;

Hurt del 1954 giunta a noi nel 1960 per merito dell’italo-americana Timi Yuro; la versione più diffusa è quella di Fausto Leali con titolo A chi;

Quando calienda el sol del 1961 dei Los Homines Rigual.

Scoprimmo che il segreto delle nostre esercitazioni tale non era. Eravamo divenuti oggetto della curiosità di una ragazza del vicinato, la quale aveva ritenuto bene di associare all’ascolto delle nostre strimpellate alcune sue amiche. Ritenendo che fossimo pronti a suonare in pubblico, una delle ragazze amica di Micùzzu chiese di convincere il gruppo a suonare per una festa di compleanno organizzata in casa.

La vanità di esibirsi, al cospetto di alcune ragazze, superò di gran lunga le perplessità circa la nostra effettiva capacità musicale ed accettammo l’invito.

Micuzzu, durante una pausa per bere qualcosa, mi disse che eravamo stati oggetto di interessati e languidi sguardi da parte di due ragazze (concentrato sulla musica non avevo alzato lo squadro dalla chitarra e non mi ero accorto di nulla).

Nel prosieguo della festa prestai attenzione e mi accorsi d’essere oggetto delle attenzioni di una coetanea, carina ma “dilica” (non troppo in carne per i non sandonatesi), dal sorriso un po’ triste, che fece pochi balli impegnata com’era a conversare con altra ragazza, la quale aveva occhi solo per Micùzzu che, più audace di me, quel pomeriggio stesso si dichiarò e si fidanzò.

Alla dichiarazione vera e propria con la “Dilica” non arrivai mai, sebbene il modo di rapportarci era come fossimo fidanzatini.

La manifestazione dei sentimenti reciproci avvenne dopo la dedica di  una serenata che facemmo approfittando di una di quelle nottate estive sandonatesi, quànnu spìra quìra sìrintìna chì nù suspiru fàttu àri còsti ì spàracìtu ù sentisi ppì tuttù u paìsi.

Vièrsu n’ùra ì nòtti, ppù paìsi s’è spàsa à mùsica i “Sàngue è arèna”, sunàta ccù ttrì catàrri, ed’àccumpagnàta ccù vùci chi faciènu ù càntu (e rù cùntràcàntu) mùtu.

A sunàta avìemu rìpitùta dùi vòti e tànta ggènti, nfrà ì quiri cà sintiènu, s’àddummànnavanu a chjni jèdi.

Alcune ragazze si vantarono di essere destinatarie della serenata che qualche lagrima di commozione in paese l’aveva provocata.

“Dìlica” che sapeva di essere vero ed unico soggetto della serenata, aveva passato il resto della notte insonne e due giorni dopo, ppù tràmintu da quatràra i Micùzzu, aveva, mànnàtu nù biglièttu addhùvi avìa scrìttu “Grazie, mi sono commossa ed ho pianto moltissimo. Ti amo”.

Tutto sembrava filare liscio, sguardi fugaci, incontri fortuiti, scambi di poche parole, qualche bigliettino recapitato da amici ed attesa di poter avere l’età sufficiente ad ufficializzare la cosa mànnànnucci àra càsa.

È da dire che la melodia, che aveva fatto decidere “Dìlica” a dichiararsi, era stata anche motivo conduttore di due film tanta fortuna non l’avevano.

Lo preciso perché, poco tempo dopo la serenata, Dìlica troncò ogni rapporto, senza altra spiegazione se non le parole, ònnu vuògghju vìdi cchjù, dette a Micùzzu perché me le riferisse.

Non la presi bene però non chiesi né il perché né il percome. Se Dìlica aveva deciso così non restava che adeguarsi ed attendere tempi migliori; forse ci avrebbe ripensato o mi avrebbe spiegato perché mi aveva scaricato.

Qualche spiegazione Dìlica alle amiche l’aveva data e qualcosa mi era stato riferito. Collegando il tutto ho poi individuato le ragioni del mio “licenziamento”

Come usava in quel periodo, il gruppo di ragazzi più adulti che frequentavo, per festeggiare la convocazione presso la commissione di leva, avevano organizzato un viaggio a Castrovillari, dove i chiamati alla leva dovevano “essere battezzati” colla prima esperienza sessuale. Talvolta in detti “viaggi” si intrufolavano minorenni che “anticipavano” di qualche anno il rito.

Qualcuno fece circolare voce che in questa occasione l’intrufolato ero io e la cosa venne risaputa da Dìlica che, sentitasi umiliata più che tradita, decise di punirmi senza chiedere alcuna spiegazione.

Ero in condizione di dire dove e con chi avevo passato il tempo in cui, per qualcuno, ero in gita a Castrovillari. Non averlo potuto fare mi fece molta rabbia per cui decisi che da quel momento Dilica l’avrei ignorata.

Tempo dopo la mia famiglia ebbe l’invito per partecipare ad un matrimonio e toccò a me rappresentarla (le famiglie numerose come era la mia, per ragioni intuibili, evitavano la partecipazione in gruppo).

Era usanza che i ragazzi scapoli e liberi da impegni, nei cortei nuziali dovevano fare da cavaliere alle ragazze non accompagnate.

Anche Dilica era fra gli invitati e sapevo che era una delle ragazze alle quali sarebbe stato assegnato un cavaliere.

Volendo evitare imbarazzi ed essendo cerimonia di famiglia amica, mi offrii di servire per le necessità di casa (preparare le cose necessarie aiutare a porzionare e, servire in tavola) così avrei evitato di partecipare al corteo.

Ignoravo che nel periodo in cui mostravo indifferenza, Dìlica era venuta a conoscenza che la voce sulla mia gita era stata ad arte messa in giro à nà màlanòva, solo per farle un dispetto.

Vista la mia rabbiosa quanto silenziosa reazione, Dìlica non aveva avuto animo di affrontarmi e magari chiedere scusa.

Dìlica aspettava l’occasione propizia (e la mia partecipazione al matrimonio era una buona occasione), per spiegarci, dirmi che il suo sentimento non era cambiato e tentare così di limitare i danni.

Durante il pranzo ed i balli successivi mi comportai come se Dìlica non esistesse ed evitai di ballare proprio per non incontrarla.

Micùzzu approfittando del giradischi fermo perché surriscaldato ha chiesto ai padroni di casa se poteva far suonare nostro gruppo musicale e la cosa fu bene accetta.

Mi chiese di suonare il “lento” Maria Elena, perché lo voleva ballare con la sua ragazza, raccomandandomi di “allungare il brodo” per almeno una decima di minuti.

Quando il giradischi riprese a funzionare l’amica del cuore di Dìlica, mi fece cenno di raggiungerla e mi accompagnò in un sottoscala chiuso da una tenda. Ho intuito chi vi fosse dietro e ma rimasi sorpreso nel vedere in che stato era.

Dìlica era disfatta (da troppo dolore per non essere considerata), con gli occhi segnati dal troppo pianto. Era accostata al muro e dava l’impressione di reggersi a malapena sulle gambe. Appena mi vide mi butto le braccia al collo piangendo e ripetendo in modo ossessivo “pìrdùnami, pìrdùnami”.

Era in piena crisi e per evitare che finisse per terra la strinsi forte ed abbassai il braccio per sorreggerla, ma nel farlo la mano andò ad afferrare la zona inguinale e li rimase.

La situazione era imbarazzante ma Dìlica non reagì, non mostro contrarietà e neanche manifestò fastidio, anzi parve accettare che una mano estranea fosse poggiata là dove forse neanche le sue indugiavano.

L’istinto prese il sopravvento ed in quel sottoscala ci scambiammo il più dolce, vero appassionato e completo bacio che della nostra adolescenza. Non un solo centimetro quadro dei nostri cavi orali rimase inesplorato.

Mi resi conto però che la cosa stava prendendo una bruttissima piega. Entrambi eravamo preda di una tempesta ormonale e di sentimenti, tanto che la mia mano, incurante della presenza dell’altra ragazza in attesa al di là della tenda, era lì lì per scostare quel leggero drappo di cotone che avrebbe liberato ciò che, in quel particolare momento, libero non avrebbe dovuto esserlo assolutamente.

In un momento di lucidità, ho ricordato l’ammonimento di mia madre, “àra càsa i l’àvuti, dùi pièdi ntà nà scàrpa” e mi sono reso conto che la situazione di quel momento la stavo vivendo proprio in casa di altri ed i piedi non li avevo in una sola scarpa, anzi erano liberi ed in cerca di guai.

Fu la secchiata d’acqua che raffreddò i miei bollori ed anche quelli di Dìlica che si riscosse e si allontanò con l’amica che l’aiutò a rendersi presentabile e rientrare nella sala della cerimonia.

Come se niente fosse accaduto ritornammo alla festa, comportandoci con l’indifferenza precedente (le ragioni però stavolta erano cambiate e molto diverse).

Quei pochi secondi di passione erano una presenza continua, ci accompagnavano in ogni momento della giornata ed eravamo intenzionati a terminare l’opera lasciata a metà.

L’occasione per riparlarne fu una festa da ballo organizzata da Micuzzù in uno dei mènzanìli, ripuliti ed addobbati per benino, visto che ogni ragazza sarebbe stata accompagnata da un familiare.

Dìlica venne accompagnata dalla madre che mi salutò “frìdda” tanto che ebbi l’impressione che “ù mùnzièddhu i pètri àncùna còsa àra rìcchia dà fàmigghja i Dìlica ddh’àvìa fàtta àrrivà”.

Con Dìlica ballai largo e parlavamo solo quando, a turno, voltavamo le spalle alla madre.

Ad un certo punto Dìlica disse che ballando pativa la distanza. Chiesi a Micùzzu di suonare col gruppo i “Giochi proibiti” nel modo più lento possibile e di far durare la musica almeno quando avevo fatto durare io Maria Elena.

Guadagnammo il centro della stanza e venimmo “coperti” alla vista della madre di Dìlica, dalle altre coppie. Fu un ballo lento, meraviglioso e stretto, durante il quale, ebbi la guancia della mia fidanzatina a perenne e bollente contatto della mia. Ci scappò pure un tenero e caldissimo bacio a fior di labbra e la promessa che saremmo fuggiti per stare assieme.

Il segnale di fuga era una serenata fatta col “tema di Lime”, quella parte di musica, molto struggente, che nel film, accompagna Alida Valli, mentre lascia il cimitero dove ha appena sepolto il suo amore morto sparato (guarda un po’, a volte, le coincidenze)

La notte prescelta per la fuga il tema di Lime ebbe le sue note sparse per il paese, ma non vi fu nessuna fuga, Dìlica non uscì ed io da solo trascorsi una nottata insonne.

Girovagai per il paese ed al mattino presto, àru jàrdìnu vidi Dilica ed i suoi genitori che salivano sulla corriera.

Seppi che Dilica ghèra chjùsa ntà nù collèggiu a Salèrnu per volere dei genitori che le imposero di terminare le scuole medie e proseguire gli studi senza altre distrazioni.

Quaranta e più anni dopo (siamo nel duemila e spiccioli), torno in paese per la festa del patrono e mentre i miei familiari seguono curiosi la processione, io mi guardo attorno cercando di ravvivare la memoria sul panorama che ho sott’occhio.

Due signore della mia stessa età mi guardano mentre dicono qualcosa ma, per quanti sforzi faccia, non riesco a dare loro la benché minima collocazione nei miei ricordi.

Pùa sì gràpidi nà sfilàgghja perchè una delle due mi rammenta la ragazza i Micùzzu e per evitare la figura del cafone, mi avvicino ed all’unisono le due signore mi fanno, “tù sì Minùcciu!”.

Confermo e chiedo se ho visto giusto per la ragazza di Micuzzu, che precisa di non essere solo la ragazza, bensì la moglie.

Sull’altra signora buio completo e sto realizzando di fare la figura del rimbambito quando la donna mi parla. Ho un sobbalzo, quella voce dolce la conosco ed anche la persona, sebbene in carne, è sempre bella, è Dìlica felicemente sposata e madre.

Senza imbarazzo alcuno, anzi ridendo della nostra stupidità giovanile, rammentiamo la nostra pazzia giovanile, senza indugiare su particolari.

Dìlica mi dice che se siamo vivi lo dobbiamo alla sua amica che ci sorvegliava davanti la tenda.

In principio l’aveva odiata per aver svelato il nostro accordo, col tempo capì che in realtà ci aveva salvato la vita.

Il nostro piano aveva spaventato i genitori di Dìlica, i quali, avevano intuito la determinazione nel voler a portare a termine quella che era una vera e propria pazzia da adolescenti innamorati.

Appena si sparsero le prime note della serenata, mentre la mamma sorvegliava il corridoio, (voleva impedire a Dìlica di lasciare la stanza), il padre àvìadi spicàtu ù dùi bbotti dò chiùovu, àvìadi càrricàtu à lupàra ed’àspittàvadi.

Sì Dìlica ghjssièdi ppà fìnèstra, nnì fèra bbinùtu àpprièssu e nn’avèra sparàtu.

U pòviru crìstiànu avia dìttu miègghju ngalèra ccù dùi quàtràri sùpa à cùsciènzia cà lìbbìru ccù nnà fìgghja sbrìgugnàta.

Come dargli torto, il paese intero ci avrebbe condannato perché in que tempi ed a quella età s’àvìaddha jucà àri pètri cìnqui ed’àra càvicchjùla e non s’avìaddha pìnzà ì jì ppì lìmiti e tròppi

Ecco, questa è una delle storielle c’ò mùnzièddhu ì pètri tènidi stipàta, ppi cchjìni à vò cànusci, ppì sàntunatìsi chì su luntàni ma dò paìsi òn sì nnì sù mài jùti, ppì quiri chi ‘ntò còri tènninu sèmpi ssù munzièddhu ì pètri.

 

Aprile 2020

MINUCCIU

 

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