A Siddrata

Luigi Bisignani

A Siddrata

di Pasquale Giannino

Camminavo per le vie deserte. Riconobbi gli odori e i sapori, quella gioia indescrivibile che sentivo da bambino ma anche le paure, e quel senso di ingenua timidezza che a volte rimpiango.

Mi attardai sulla terrazza alla frescura delle piante. Un rottame carico di legna si inerpicava, una vecchia si affacciò sbirciando incuriosita, incrociò per un attimo i miei occhi… si ritrasse nella dimora; un cane malandato brancolava in cerca del padrone. Sollevai lo sguardo verso la nuda roccia e vidi le case che parevano affastellate come pietre, mi sovvennero i giorni di festa, i fuochi d’artificio, la banda, le bancarelle, i cantanti… e quella felicità che non ho più provato.

Quannu passavu pp’a Siddrata,
quatrashqualu i na dicina d’anni,
mi paria na chiazza tanta granni,
chi pinzavu i ghessi a Roma o a Milanu.
E quannu trasiu jint’o bar,
quanti genti attuornu aru biliardu
ed ari tavulini, cch’i carti ’mmanu!
U misi agustu c’eranu i cantanti
e binianu a luntanu tutti l’emigranti.
Era na festa granni, c’eranu tanti genti
e ghia mi priavu ari vidi tutti cuntenti.
E quanti giuvini a quir’arboretti,
chiacchiariavanu e ridianu ara faccia d’e parenti!
L’atra vota, passannu pp’a Siddrata,
m’è paruta tanta ninna,
chi pinzavu c’aviu sbagliatu strata.
U bar era chiusu, on c’era cchiù nuddru,
e, sutta l’arboretti, duj viecchiarieddri
pinzavanu all’anni chi si portanu ’ncuoddru.

È uno stabilimento enorme, grigio e polveroso. Nei piani alti ci sono i laboratori e gli uffici: i dirigenti, le loro segretarie, gli impiegati a poco più di mille euro al mese, quelli a progetto… Non esistono titoli, ci si chiama per nome e si adopera il tu. A pian terreno ci sono i reparti di produzione. O, meglio, ciò che resta della produzione… Quelle sale fino a pochi anni fa erano gremite. Oggi sono pressoché vuote. Le usano i nostri padroni per organizzare delle adunate a cui partecipiamo tutti, “democraticamente” – dai top manager agli operai (i pochi rimasti) – mentre loro si collegano in videoconferenza, e ci illustrano dai megaschermi le strategie di mercato. “Dobbiamo diventare i primi!” ci dicono. “E questo comporterà dei sacrifici…”

È forte l’odore della fabbrica:
giunge fino ai piani alti.
È la polvere quotidiana
che mangiano padri di famiglia
per sorridere ai loro bambini.
È il sudore acre di giovani
che hanno rinunciato a sognare,
rifugiandosi in qualche bicchiere
o nelle illusioni del sabato sera.
È la bile di tanta gente
soggiogata all’infame ricatto
di un calcio nel deretano.
È un odore che si mischia
al fumo di cervelli assoldati
per oscuri giochi di potere.
È forte l’odore della fabbrica:
è un lezzo di schiavitù.

Guardavo quei volti dall’espressione assente. Un signore dall’aspetto ricercato scorreva le pagine di un quotidiano, una ragazza sui vent’anni – la pelle deturpata dai piercing e da orrendi tatuaggi – annoiata e indolente ascoltava la sua musica, un uomo di mezza età mi fissava con aria trasandata… Avrei voluto dirgli qualcosa, ma i suoi occhi erano persi nel vuoto… Il treno sprofondò nel ventre della metropoli, salirono decine di giovani abbronzati e vestiti all’ultima moda. Salirono anche degli straccioni… La carrozza divenne satura. Avrei voluto dire tante cose, ma non riuscii a proferire parola.

Mi sento meno solo.
Ho attraversato la città deserta,
la luce fioca,
pochi rumori flebili lontano.
La sentivo mia.
L’ho attraversata a passo lento,
senza spintoni,
col ritmo ritrovato
nella quiete della notte.
È la vita che si riaccende
dopo la farsa quotidiana.
L’ho attraversata palmo a palmo,
tra la passione degli amanti.
L’ho attraversata senza intralci
e ho amato anch’io,
nella notte fonda,
la città deserta,
la città mia.

 

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