La castagna, un frutto nella storia

Luigi Bisignani con la  collaborazione di P.L.Nanni

Il castagno si trova allo stato spontaneo in un ampio areale della fascia climatica mediterranea e precisamente dalla Turchia ai Balcani, dall’Italia alla Francia, alla penisola iberica e sulle coste del Magreb, tuttavia, per lungo tempo rimase ai margini dell’attività economica. I greci inizialmente non ebbero neppure un nome per indicare la castagna in quanto la designarono una particolare specie di ghianda se non addirittura una sottospecie della noce.

Nelle Roma “caput mundi”, il primo a farne menzione fu Varrone – I° sec. a. C. – mentre nel secolo successivo, Plinio il Vecchio conosce già sette varietà coltivate, ma la scienza dietetica di allora continua a considerarla un “frutto selvatico”.
Dopo un altro secolo, Galeno riferisce che “ … sono le principali fra tutte le specie di ghiande: esse sole, tra tutte le specie di frutti selvatici, danno al corpo un nutrimento degno di memoria”.

Ma tale “indifferenza” per questo frutto perdura fino nell’alto medioevo quando finalmente i documenti fanno cenno al castagno, ma è difficile intuire se si tratta di alberi coltivati o selvatici. Ciò vale ad esempio, la legge stilata nel 643 con l’Editto di Rotari dai Longobardi che prescrive “ … se qualcuno taglia un castagno, un noce, un pero o un melo, paghi 1 soldo di multa”.

In effetti, è solo nei secoli centrali del medioevo che la coltivazione del castagno si diffonde su ampie aree territoriali divenendo un’importante fonte di sussistenza. La svolta avviene tra il X ed il XII° sec. in concomitanza con la crescita della popolazione e della domanda alimentare.

Nelle aree di pianura e di collina ciò provoca una progressiva espansione dei coltivi a scapito del manto boschivo che fino ad allora era stato l’elemento primario del paesaggio mentre nelle zone di montagna, dove i cereali non riescono ad attecchire, il castagno ne prende in qualche modo le parti. I due fenomeni si sviluppano in modo assolutamente parallelo: campi di cereali e piantagioni di castagno crescono di pari passo.

Tra l’XI ed il XIII° sec. l’espansione dei castagneti da frutto non cessa di avanzare in tutta l’area appenninica dell’Italia, dall’Emilia alla Toscana, dall’Umbria al Lazio alla Campania. Lo stesso accade nella Francia centro-meridionale, in Spagna, in Portogallo e nella penisola balcanica: dappertutto i boschi si trasformano, vengono “addomesticati”.

L’economia silvo-pastorale, che nei primi secoli medioevali aveva visto prevalere forme d’uso naturale del bosco, ossia attività di caccia e di allevamento brado, lascia il posto ad un tipo nuovo di economia boschiva sempre più simile alle attività agricole date le cure costanti richieste per l’impianto e la manutenzione dei castagneti.

Un esempio: il bosco di Santo Stefano, proprietà del comune di Mondovì, in Piemonte, nel 1298 viene concesso in enfiteusi a quindici persone che per un canone di 50 lire annue, si impegnano a renderlo “fertile et fructuosum” dissodandolo e metterlo a coltura trasformandone parte in castagneto: su quel terreno “sterile et infertile” si potranno piantare “molta bona et domestica castagneta”.

Tale “domesticazione” avviene il più delle volte a scapito del querceto. Sul piano alimentare essa comporta un ridimensionamento della carne, maiale e selvaggina, nella dieta popolare, che si affida in maniera crescente alla castagna, così come, in pianura, ai cereali. In entrambi i casi, un farnaceo, un prodotto vegetale che si preferisce alla carne in virtù della maggiore redditività in peso e, forse, della maggiore duttilità d’uso. Scelte dettate dalla fame, che seguono di pari passo il crescere della popolazione e lo sviluppo degli insediamenti sul territorio.

L’albero del pane

La castagna dunque è un sostituto del pane, in quanto utilizzata al posto del pane là dove il chataigne5“vero” pane non si riesce ad ottenere: pane d’albero la chiamano in tutti i paesi mediterranei ed il castagno è detto ovunque “albero del pane”.
Tale capacità sostitutiva è segnalata dai documenti in modo esplicito fin dal medioevo.

Bonvesin da la Riva, siamo nel 1288, scrive a riguardo agli usi alimentari dei contadini lombardi “ molte volte [le castagne] si masticano senza pane, o anzi, al posto del pane”. Così pure in uno statuto toscano del XV° sec. si legge che “ … le castagne sono il pane della povera gente”.

Attestazioni come queste si fanno sempre più frequenti nei secoli successivi con l’aggravarsi delle condizioni alimentari dei ceti poveri. Su alcuni noti testi medico-dietetici del XVI° sec., i “Discorsi” di Andrea Mattioli e “L’erbario novo” di Castore Durante si riporta che “ … nelle montagne dove si raccoglie poco grano, si seccano le castagne su grate al fumo e poi si mondano e se ne fa farina che valentemente supplisce per farne pane”.

Analoghe informazioni sono fornite da fonti letterarie. Un poemetto anonimo della fine del ‘500, descrivendo i costumi e le dure condizioni di vita degli abitanti dell’Appennino toscano, afferma che lassù“ … il pan è di castagne”. Nel XVIII° sec. l’emiliano Giacomo Castelvetro avverte che “ … migliaia de’ nostri montanari di questo frutto si cibano in luogo del pane, il quale o non mai, overo di rado, veggono”.

Anche sul piano nutrizionale si suppone una certa somiglianza fra castagna e grano. Secondo Pier de’ Crescenzi, il più importante agronomo italiano del medioevo, riprende opinioni espresse nei trattati di medicina e di dietetica, la castagna “ … è di buono nutrimento” e “ proxima granegli del pane”. Lo spagnolo D’Herrera nel XVI° sec. ribadisce che le castagne “ … dopo del frumento danno più sostanza al corpo di qualunque altro pane”. Anche Vincenzo Tanara, nel XVII° sec. dirà, invocando a conferma l’autorità di Galeno, che il pane fatto con la farina di castagne “ …levatone quello di formento, nutrisce più d’ogn’altro grano”.

In verità, come sostituto del pane, la castagna è assimilata piuttosto ai grani inferiori che al frumento, sia per la somiglianza degli usi alimentari, sia per la destinazione sociale, soprattutto i ceti popolari.

Il già citato Bonvesin da la Riva sostiene che castagne, fagioli e panìco, sostituiscono il pane di frumento nella dieta di molti contadini. Nel 1285, Salimbene da’ Parma riferisce di una “ … granda carestia de’ grani minuti e di castagne da far preoccupare seriamente l’intero ducato”.

Una risorsa da difendere

Data la personale centralità alimentare, il castagno diventa ben presto la risorsa primaria di chataigne10tante comunità montane, vera pianta di civiltà attorno a cui ruotano la vita e la cultura locale. Il sapere tecnico per l’impianto e l’allevamento dei castagni si trasmette con l’esempio e con la pratica, ma viene anche messo per iscritto. I contratti con coltivatori talvolta indicano con estrema precisione le operazioni da svolgere.

Nel 1286, due uomini della montagna bolognese prendono in locazione un terreno impegnandosi a tagliare i castagni ed i ciocchi vecchi ed a innestare nuovi polloni per aumentare la produttività, utilizzando una precisa varietà di piante, precisamente la qualità “buone pastanesi”, che tuttora si allevano. Il terreno dovrà essere arato, zappato, concimato e per il primo raccolto si pagherà un canone ridotto, pari appena alla quinta parte del prodotto. A produzione avviata si pagherà la metà, secondo il modello tipico dei contratti mezzadrili.

Riguardo all’allevamento dei castagni, secondo certi agronomi di età moderna, siamo nel ‘500 con Agostino Gallo che scriveva “ … per haverne copia assai, è meglio seminarli che piantarli, in marzo in terreno ben zappato, ben netto e ben letamato”. Ma sembra di gran lunga più diffusa la prassi di mettere a dimora le piantine, secondo il classico dettato di Columella che “ … si pianta a partire dal mese di novembre”.

Molto diffuse sono le pratiche dell’innesto e della pollonatura su vecchie ceppaie come è riportato in un documento del 1286. Ai lavori di potatura e rimodatura si affianca la cura del terreno per il deflusso delle acque.

Grandi attenzioni sono dedicate al castagneto ed alle castagne negli Statuti delle comunità rurali, collettivamente impegnate nella difesa e nella valorizzazione di questa preziosa risorsa. Appositi funzionari, talvolta compensati in natura, ossia in misure di castagne, sono incaricati di sorvegliare le selve e di proteggerle dai danneggiamenti che uomini o animali potrebbero arrecare, inoltre, il pascolo sotto gli alberi è rigorosamente disciplinato e, in certi periodi dell’anno, proibito. Per operazioni di raccolta ci si deve attenere alle date stabilite dal governo comunale, che debbono valere per tutti.

Il rapporto conflittuale fra coltivazione dei castagni e pratiche pastorali è un aspetto particolarmente critico della regolamentazione comunale, che in genere cerca di conciliare le due contrastanti esigenze, alla ricerca di un equilibrio difficile ma non impossibile.

Gli Statuti comunali di Sambuca, siamo nell’appennino tosco-emiliano, vietavano ai porcari di farsi trovare con i loro animali nei castagneti o nei vicini querceti finchè il comune non avesse proclamato ufficialmente la fine della raccolta – abandonamentum – : dopo, si poteva pascolare e ruspare, ossia spigolare sotto gli alberi. Lungo la strada che scendeva a valle, i porcari potevano condurre gli animali solamente dieci giorni dopo la caduta delle castagne, tenendoli bene in branco ed evitando che uscissero dal tracciato viario oltre dieci braccia. A loro volta, i proprietari dei castagneti si impegnavano a raccogliere le castagne prima che transitassero i porci. Le date di accesso e di transito degli animali cambiano da luogo a luogo, secondo i tempi di raccolta, che in certi casi si prolungano fino a tutto dicembre.

Un frutto energetico e gustoso

La castagna – castanea sativa -, originaria dell’Asia Minore, dalla Grecia si diffonde in Italia probabilmente per merito degli etruschi. A quel che parrebbe, almeno ad arguire dal fatto Chataigne--6-che il primo a parlarne fu Varrone nel I° sec. a.C., a Roma non doveva essere molto accettata, anzi, veniva spegiata come alimento farinaceo da plebei.

È certo però che dal momento del suo arrivo sulle mense dei quiriti, ancorchè poveri e diseredati, la castagna rappresenterà, specie per le genti bracciantili alla perenne e diperata ricerca di cibo, un utile sostituto della ghianda e di altri prodotti dell’incolto: è una possibile e fattibile alternativa, seppure non altrettanto valida sotto il profilo nutrizionale, alla fava, cicerchia, farro, spelta, panìco ed all’orzo, ma soprattutto al frumento, il più prezioso fra tutti i cereali.

Il suo seme, infatti, dal punto di vista nutrizionale, può essere paragonato ad un piccolo pane come affermano i moderni botanici, anche se il contenuto proteico non è sufficiente a coprire il fabbisogno nutritivo.

Sin dai tempi più antichi, i poveri avevano imparato a macinare le castagne secche ed a trarne sfarinati da impiegare come succedanci delle più pregiate e maggiormente costose farine cereali, nelle preparazioni di zuppe, farinate, polente, focacce e castagnacci.

Con il risultato altamente utilitario di riempire di massa lo stomaco: rimedio senzaltro efficace a calmare i morsi della fame ma non abbastanza ad assicurare il necessario apporto proteico.

Da 100 g di castagne secche o dalla farina che se ne ricava, si ottengono circa 6 g di proteine, sicuramente maggiori di quante se ne trovano nelle patate – 2% – o in altri feculenti, ma assai inferiore che nei cereali – 10-12% – o nei lugumi – 20-25% -. Tutto questo indica che per ottenere da una farina di castagne la stessa quantità di proteine presenti nella farina di frumento, nei ceci, nelle lenticchie e nelle fave, occorre mangiarne da due a quattro volte di più.

Non è casuale che ancora negli anni ’60 vi fossero dei casi di malnutrizione proteica in bambini abitanti nell’appennino piacentino svezzati con pappe a base di farina di castagne. Inoltre, nella farina di castagne mancano le proteine – prolammine e gluteline – progenitrici del glutine ed essa non è pertanto panificabile per cui, al massimo, può servire a tagliare una farina di frumento o di segale per ricavarne pani misti di cereali e castagne.

Le castagne intere o fresche o relativamente fresche, considerata la loro agevole conservabilità, solo raramente si mangiano crude e quasi sempre arrostite – caldarroste – o bollite. Per bollirle, le scuole di pensiero sono almeno due: bollirle con la prima buccia – ballotte – o senza – caldallesse -. Nel secondo caso, sarebbe buona norma aromatizzarle aggiungendo all’acqua di cottura foglie di alloro o semi di finocchio o rametti di mirto.

Lasciati alle spalle i tempi tristi e bui della fame e della carestia, ai giorni nostri la castagna non ha più la funzione originaria di cibo integratore del mangiare quotidiano, in qualche caso addirittura sostitutivo del pane. Perduto questo ruolo, la castagna ne ha assunto un altro, più voluttario, senz’ombra di dubbio nutrizionalmente marginale ma non per questo tale da sminuirne il significato alimentare di frutto sano, gustoso e piacevole.

Duttilmente adattabile a tanti piatti diversi, la castagna è insieme al dolce vino rosso, del quale è sposa ideale, gioiosa compagna nelle brumose serate d’autunno e nelle gelide notti d’inverno, quando è bello stare davanti al camino ad ammirare il fiammeggiare allegro di un gran fuoco di legna odorosa ed il baluginare delle monachine che vanno pian piano languendo nel buio cavernoso della cappa …

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