Un pezzetto dei modi di dire sandonatesi.

Luigi Bisignani & Minucciu

Tantu ppì ddi:

Dopo una pausa, riprendo la pubblicazione dei modi di dire sandonatesi.

Aru buònu. Era una espressione “multiuso” con la quale, in determinate circostanze, si poteva formulare l’augurio per la realizzazione di un desiderio o un augurio che un accadimento si potesse verificare. Il fine, buono o cattivo, dipendeva dalle circostanze in cui le due parole venivano pronunciate. Dirlo ad una ragazza innamorata, aveva significato di buon augurio per un futuro matrimonio; ad un malato, quale pronostico di guarigione se l’intenzione era buona ovvero di sofferenza o morte con l’intento cattivo e la casistica potrebbe continuare all’infinito. Per chi è sandonatese non servono ulteriori spiegazioni, specie se è nato negli anni 50, periodo in cui dette parole erano ancora in uso.

Ccì ghèssi ll’ànima. Era la frase con la quale si esprimeva forte desiderio di qualcosa che per ragioni varie al momento non si poteva ottenere. Il soggetto cui le parole erano indirizzate spesso e volentieri era un “quatràru” il cui sguardo era attratto da qualcosa che desiderava, spesso dolciumi od altre cose mangerecce. Per i sandonatesi adulti la frase si usava anche quale metafora di sentimento amoroso non corrisposto e spesso per indicare il desiderio “mùto” di una donna incinta.

Cciànu fàttu pèddhj. Era un’altra espressione di più valenze. Poteva indicare l’abitudine alla fatica, alla sofferenza e la rassegnazione alle avverse circostanze della vita. Poteva anche voler dire abitudine ad una cosa, vicinanza od amicizia per una persona, assuefazione ad un vizio e persino consuetudine per la galera. Rammento di un vecchietto che abitava nel rione “Siddhàta” che si vantava di aver “fattu pèddhj àru vìnu ed’àra galèra”, visto che l’ubriachezza abituale, unita alla sua caratteristica di “pià impìcci à mmrjacu” gli aveva fatto trascorrere ben ventidue feste di natale in galera.

Cc’è cèrza. L’espressione è mutuata dalla robustezza e dalla maestosità dell’albero di quercia. Poteva essere utilizzata in senso materiale o per manifestare il vanto personale, se si voleva rendere palese l’esuberanza e la forza fisica possedute. Aveva anche significato di forza morale quando si offriva sostegno o protezione in situazioni di insicurezza, incertezza, instabilità fisica od economica. Aveva anche significato di audacia o furbizia quando si affondava un azzardo  ed il rischio calcolato veniva risolto a proprio favore. Era la tipica espressione del valido giocatore a briscola che, privo di “pezzi buoni” risolveva una mano a proprio favore.

Chjàncidi ù jùstu ppù piccatùru. Con questa espressione si prendeva atto che talvolta le conseguenze di mancanze e peccati non ricadevano sul responsabile ma venivano pagate da persone che era consapevoli della sua cattiva condotta alla quale non avevano partecipato o non ne avevano tratto benefici. Il detto era applicabile anche alle cosiddette “responsabilità collettive” per cui le conseguenza di un danno provocato da un compaesano venivano pagate dalla comunità chiamata al risarcimento.

Chiòvidi! Eh, òn’sicca nnènti! Era una espressione che rimarcava una asserzione inutile, che annunciava un fatto che chiunque poteva constatare di persona, come appunto il fenomeno della pioggia.. Era la risposta all’ovvio ed insieme una presa in giro, specie nei confronti di quelle persone che si dimostravano saccenti o che assumevano atteggiamenti da “màstri”.

Ccìàddha pinzà dònpippìnu. Anche questa frase assumeva molti e diversi significati, i quali dipendevano sempre dalla circostanza o dal momento in cui venivano pronunciate. Potevano essere l’annuncio di una futura “paliàta” oppure l’augurio di una prossima “màlasalùti”. Era la risposta che donne o ragazze davano al maschio dongiovanni ed audace che le importunava con proposte “scùstumàte”. Era comunque un richiamo all’intervento del medico condotto, appunto “don Pippìnu”, con implicito cattivo augurio nei confronti del destinatario della frase.

Cùlu rùttu e sènza ciràsi. L’espressione prende corpo dalla brutta avventura di un compaesano il quale sorpreso in cima ad un ciliegio dal proprietario, fu costretto a scendere, cedere il paniere con la frutta raccolta e rimandato a casa dopo solenne “pàliata”. Da qui la frase con la quale si da il senso di una sconfitta totale con danni, oppure si rende l’idea di una azione cervellotica o di una avventura nella quale era meglio non imbarcarsi.

Settembre 2014-    Minucciu

 

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1 commento

    • Giovanni Benincasa il 14 Settembre 2014 alle 18 h 29 min
    • Rispondi

    Saluit!!

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