COME ERAVAMO : Tànnu… gusàvadi accussì. (Quarta)

La redazione & Minucciu

 La nascita

Dopo il parto la casa veniva riordinata e la puerpera riceveva le visite dei parenti e degli amici stretti ed in successione, conoscenti, gente del vicinato e cosi via.

Durante dette visite il nascituro era esaminato e valutato, meglio ed in modo più approfondito di quel che avrebbe fatto una squadra della Scientifica. Se ne stimava l’apparente stato di salute, la floridezza e robustezza, si apprezzava e pronosticava se il o la nuova sandonatese, crescendo, potevano divenire il maschietto, future robuste braccia da fatica e vigorosa e prolifica donna di casa, la femminuccia. C’era, immediata e non sappiamo ancora quanto supponente ed avventata, la valutazione sulle potenzialità del neonato, che in quei tempi, raggiunta l’età dei sette anni circa, doveva iniziare a guadagnarsi il pane e contribuire all’economia familiare e proseguire poi, da sposato, a faticare “pro domo sua” e per i suoi vecchi. Il timore, il problema principale, rimaneva sempre lo stesso; solo la buona salute consentiva una vita decente.

L’essere di cattiva salute era considerata disgrazia; il maschietto “piscàtu” e quindi incapace o inabile alla fatica, era condannato alla miseria ed all’indigenza; la donna, se non prolificava perché “stirpa”, era disprezzata e condannata alla solitudine ed in vecchiaia, specie se impossidente, a ristrettezze economiche, miseria ed alla mercè di estranei, perché all’epoca si poteva far conto sulla famiglia così come costituita. Da sposato ognuno doveva pensare per se perché, “ ù nnuòdu do sanghu”, restava solo per i genitori, verso i quali vi era un obbligo morale e materiale; in quel tempo, l’unica forma di assistenza, previdenza e sostentamento per le persone anziane, od inabili al lavoro erano i figli. La situazione economica contingente era quella che era con l’abbondanza riservata ai pochi che avevano costituito od ereditato latifondi. L’insufficienza economica ed alimentare era ciò che generalmente toccava alla maggioranza dei sandonatesi. Anche volendo, poco o nulla poteva essere sottratto all’economia familiare per fornire aiuti ed assistenza a terzi ed ai parenti sfortunati, di conseguenza non era granché quel che si poteva offrire come aiuto.

Dopo le prime ed immediate valutazioni sulla salute futura, non si sa quanto fondate, per il nucleo familiare del nascituro iniziavano i giorni della cura a base di picciùni e fidìlini. Non era noto su quale evidenza e principio scientifico si basasse la teoria in ossequio alla quale le donne sandonatesi, dopo il parto, dovevano nutrirsi a “fidìlini ntò bròdu di picciùni” e “picciùni vuddhùtu”. Consuetudine voleva che alle puerpere fossero recapitati, in regalo ed in quantità industriale queste due tipologie di alimento. Sono il primo, su sei figli, so esattamente di cosa sto parlando e cosa significa, dopo ogni nascita, passare settimane a nutrirsi con i suddetti “rigàli” che per tradizione non dovevano né potevano essere riciclati, distrutti o gettati pena, il compromettere a vita la “vintùra” propria ed anche quella del neonato.

Nasceva poi la contesa sugli “assumìgghj” del neonato, disputa che su esserino di poche ore o di alcuni giorni, fa sorridere; si può solo immaginare come evolverà la fisionomia di un bambino. Sulla questione pare non si siano fatti molti progressi e non esistono certezze seppure resista ancora oggi il vezzo di “assumigghià” il neonato a qualcuno. Rammento ancora “ù gàbbu”, provocato da una comare che, senza riflettere, somigliò il neonato che doveva tenere a battesimo, ad un amico di famiglia, non tenendo al momento in conto le precedenti chiacchiere ed i dubbi che erano corsi sulla potenzialità riproduttiva del neo padre, poiché il bimbo era nato dopo circa sei anni dalla celebrazione del matrimonio.

Altro oggetto di dispute infinite era il colore degli occhi del neonato che, in quei tempi, causa dell’usuale e feroce congiuntivite post parto (i colliri disinfettanti erano di la da venire), per circa un mese ed anche oltre restava con le palpebre rigorosamente gonfie e chiuse. Bisognava attendere che l’infezione si risolvesse, aiutata da frequenti “bagnuòli ì galumìddha” e sperare di scansare qualsiasi compromissione della funzionalità visiva, come talvolta accadeva. I primi timidi tentativi del neonato nell’aprire le palpebre erano vissuti con ansia; lo si teneva nella penombra di casa e ciò era cosa buona anche se il fumo, prodotto nel focolare del caminetto ed onnipresente anche nelle case dove “a cìminèra” lo convogliava verso l’esterno, non è che alla congiuntivite neonatale fosse tanto di aiuto. Parlare di colore degli occhi prima di trenta/quaranta giorni dopo la nascita era solo accademia, presunzione, esercizio della fantasia perché, dal lieve spiraglio che il neonato concedeva, non era possibile vedere nulla, non il colore ma neanche il bianco dell’occhio.

Dopo la nascita iniziava una serie di valutazioni per la scelta di padrino e madrina ed anche in questo bisognava districarsi fra tutta una serie di preesistenti commaraggi e comparaggi che andavano valutati per non commettere errori, urtare sensibilità o deludere aspettative. Non mancava chi, si candidava al ruolo di padrino o madrina in modo velato, per sottintesi; i più sfacciati lo chiedevano in maniera palese. La discussione e la scelta non era dei soli genitori perché nella questione si sentivano autorizzati a mettere bocca suoceri, fratelli, sorelle, cognati e, perché no, anche vicini di casa ed amici.

L’usanza era che, se tutto era andato per il meglio, il battesimo doveva essere impartito da una settimana ad un mese dalla nascita; in caso di gravi complicanze per la puerpera, si poteva attendere anche fino ai tre mesi. Generalmente detta tempistica era rispettata ma in taluni casi, sia la ricerca di un equilibrio nei comparaggi  sia la necessità conciliare il lavoro con l’organizzazione della cerimonia, facevano slittare la cerimonia mentre incombeva la paura della mortalità infantile, timore niente affatto infondato all’epoca, quando la percentuale di morte neonatale era piuttosto alta. Nell’attesa “i sbrugghjà ì còsi” e garantirsi il tempo necessario, le famiglie ricorrevano ad uno stratagemma che mandava in crisi la coscienza dei ministri del culto. Dal sacerdote si pretendeva che al bambino “s’avièddha dà l’acqua”, nel senso che doveva essere asperso con l’acquasanta a chiesa vuota ed alla presenza della madre, col solo segno di croce, senza altre formule. Questo rito anomalo, secondo la popolare interpretazione dei sacri testi, in caso di morte neonatale, avrebbe evitato all’anima del morticino il vagare in eterno o di trasformarsi in “monacièddhu” e gli avrebbe invece consentito l’accesso fra gli angioletti, che agli innocenti spetta di diritto. Rifiutando, il prete si assumeva la responsabilità di non assicurare il paradiso ad un’anima innocente. Nessuno voleva una cosi grave responsabilità e talvolta succedeva che fra scegli e rimanda, in alcuni rari casi veniva celebrata cerimonia unica comprensiva di battesimo, cresima e matrimonio.

Con questa parte termina la prima fase della vita di un sandonatese. Nella prossima esamineremo la prima infanzia.

Ottobre 2012                                               Minùcciu

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1 commento

    • g.benincasa il 12 Novembre 2012 alle 8 h 39 min
    • Rispondi

    Cordialità a Minucciu! Giovanni

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