Cannacca….

Luigi Bisignani

Da “Come Eravamo” Cannacca …

Quando ero poco più che bambino, in San Donato la stagione fredda, quando decideva di fare sul serio, regalava sequenze di giornate glaciali, tali da rendere impossibile ai “quatrari” di mettere il naso fuori dell’uscio. Al contrario di quello che accade oggi, in quel tempo, rare erano le famiglie con un solo figlio, era norma averne fra i tre ed i sette, ma alcuni volenterosi si erano spinti anche più in la. Il problema “famiglia numerosa”, diveniva emergenza nei periodi freddi od in caso di maltempo, quando bisognava ingegnarsi a far passare il tempo ad un’orda di piccoli barbari. Non sempre “fàti o ripàssati ì lezziòni” era sufficiente, perché nella truppa vi erano quelli che a scuola non andavano. Il gioco, dopo un po’, veniva a noia per mancanza di scelte e quindi si armavano delle baraonde che facevano saltare la mosca al naso “ari granni”. Non vi era alternativa ai materiali poveri utilizzati, ed i giocattoli, ”accattàti àru pittirùtu o àra fèra dò sìa ì jnnàru”, col passamano, obbligatorio fra fratelli e compagni, al più dopo una settimana, avevano cessato la loro funzione essendo divenuti rottami inutilizzabili.
Nei periodi in cui il tempo era un po’ più clemente, oppure quando vi erano in corso lavori di natura delicata, tipo lavorare davanti al forno o preparare le fritture per le festività ovvero “sciascià ù maiali” e “taggjà à càrni ppì salùmi”, i “quatrari” erano visti come il fumo negli occhi. Erano lavori impegnativi durante i quali i piccoli ficcanaso potevano correre qualche pericolo. Per un tacito accordo fra famiglie del vicinato, gli elementi più piccoli e generalmente meno governabili e turbolenti, venivano spediti a richiedere in prestito oggetti tipo “nà pìcchi ì fìlu ì fàmi stà”, “à pignàta da lintizzi”, “nù stiavùccu ì ntartiègnu”, “nù bicchìeri ì làtti avucièddhu”, quest’ultimo ad uso dei più piccini, ed altre facezie del genere. La destinataria della richiesta capiva ed allungava il tempo di consegna adducendo le scuse più varie. Negli altri casi bisognava arrangiarsi e qualcuno doveva impegnarsi a raccontare episodi in grado di catturare l’uditorio.
Fu durante la lavorazione della carne di un maiale che fui spedito a chiedere ad una vicina, in la con l’età, “nù gnòmmaru i fìlu ì fàmi stà” che a mia madre serviva per legare “càpu ì savuzìzza è rì supprissàti”. L’allontanamento era dovuto al il rischio di farmi amputare due dita, nel tentativo di prelevare furtivamente, dal tagliere, un pezzettino di carne da infilare “à nù scuòrpu” per arrostirlo “àri vreshj dò fuculàru”.
Zia Catrìna capì che la sosta doveva essere lunga e mi disse di pazientare, perché doveva prima trovare “ù fùsu” e poi ritorcere il filo e preparare il gomitolo. Frattanto, se mi faceva piacere, mi avrebbe raccontato “na parmaria” su “Cannàcca”, un personaggio pittoresco che rammentava di aver conosciuto in gioventù. La “lunga” storia, artatamente fatta durare quasi tre ore, la riassumo in questi termini.
La notizia si sparse in un lampo per tutto il paese, “Cannàcca” era scomparso. Lo chiamavamo così perché i ragazzini del vicinato, giocando rumorosamente, in varie occasioni gli avevano spaventato il bestiame creandogli difficoltà. Li minacciava dicendo: “ancùna vòta bbì mìntu a cannàcca, ligàta ccù nnà capìzza, accussì bbì stati fermi nà pìcchi”. I “quatrari” prendevano sul serio la minaccia perché non era persona da parlare invano. Se prometteva qualcosa, la promessa poi la manteneva perché era un tipo deciso. Il tizio di cui stiamo parlando, il soprannome se lo era anche guadagnato quando, durante il servizio di leva, aveva trascorso in cella di rigore e recuperato a fine del servizio militare, ben sei mesi, tanto aveva accumulato in punizioni a causa del costante rifiuto di indossare il collo rigido che all’epoca indossavano i soldati. “Mi cacciati dujànni dà vìta mìa, màti custrìntu à ccì vinì ccà lèggi, ghja ò bbùliaj vinì; tùttu bbì pàssu, à cannàcca nò”. Questo andava ripetendo ogni volta che lo punivano. Si raccontava che effettivamente, alla visita di reclutamento ed al reparto, “Cannàcca” c’era andato accompagnato dai carabinieri. Raccontava lui stesso che in ventiquattro mesi, tanto era durata la sua leva, non era stato ammesso alla libera uscita per l’assenza del collo rigido. Quando beveva un po’ scherzava sull’argomento e si vantava di non aver mai indossato la cravatta, neanche per la cerimonia nuziale. “L’uòmminu nùn è ffattù ppì purtà nnè à capìzza e màncu a cannàcca” andava ripetendo. In questo fu sempre coerente ed i parenti non si azzardarono a fargli indossare l’odiato accessorio neanche da morto.
L’assenza si protraeva gia da due giorni e questo non era da lui che alla “rròbba e àra mugghjèri ccì tinìadi”. Venne esclusa la fuga per liti, debiti e donne. Cannàcca era gia sulla sessantina ed a quei tempi, l’età aveva il suo peso e, remore morali e buona condotta sociale, erano dei valori. Mica come al giorno d’oggi che l’eccesso e la promiscuità sono premiali.
L’ultima persona a vedere lo scomparso era stata la moglie di Pasquale, all’epoca ricoverato in ospedale per un’ulcera. La donna, avendo da assistere il marito assente forzato per un bel po’, temeva per la riuscita della vinificazione quasi a fine ed aveva incaricato Cannàcca di provvedere al travaso del vino. Lo aveva accompagnato ed aveva mostrato come il marito desiderava eseguire il lavoro e poi era andata via, con l’accordo che sarebbe ripassata a controllare, prima di recarsi dal consorte.
Costatata l’assenza, amici e parenti si divisero i compiti e tutti i luoghi, ove Cannàcca poteva essersi recato, furono attentamente ispezionati. Vennero interpellate tutte le persone che potevano averlo visto. Nulla, Cannàcca s’era volatilizzato. Non aveva problemi economici, pertanto la “vox populi” attribuì la scomparsa a contrasti, senza specificarne la natura. Due giorni dopo la scomparsa intervenne la legge e presentata denuncia di scomparsa. Anche le ricerche dei “carbunieri” non ebbero esito e sempre la “vox populi” fece circolare l’ipotesi di una vendetta. Dopo tre giorni per la maggior parte della popolazione Cannàcca era morto.
La legge volle approfondire l’argomento. Tutte le persone che avevano avuto a che dire con Cannàcca, presero la strada della caserma ed ivi dovettero rendere ragione dei loro movimenti negli ultimi giorni e spiegare, se ve ne erano, i motivi dei contrasti con lo scomparso.
Non se ne veniva a capo. Il mistero si infittiva, tanto da provocare la venuta in paese del comandante la tenenza dei Carabinieri, fatto inusuale e straordinario, abituati come s’era alla massima autorità del brigadiere. L’evento, preannunciato, provocò assembramenti nei punti di passaggio e fece riunire una piccola folla nei pressi della caserma, all’epoca con sede “ara terra”, tutto per vedere e costatare la personificazione dell’autorità, occasione più unica che rara per un paese isolato come San Donato. L’attesa era per gli scatti dei tacchi ed i saluti all’ufficiale, analizzati e commentati per profani e donne, da chi il servizio militare l’aveva fatto e si atteggiava ad esperto di cose e gerarchie militari.
Il mistero della scomparsa durò una settimana, giusto il tempo impiegato dalla moglie di Pasquale per ritornare in paese. La donna, recatasi presso la cantina per un controllo, appena entrata avvertì un puzzo tremendo e si precipito ad aprire la finestra che dava sul cortile interno. Giratasi, per poco non svenne, si portò la mano alla bocca a soffocare un urlo perché, in un angolo, seduto per terra, sporco ed arruffato, puzzolente e completamente ubriaco, se ne stava Cannàcca che, stancamente, alzo la testa e disse: ”cummmà, e milàti fàtta bbèlla, màti chiùsu ntà cantìna e màncu ghja sacciù à quàntu tièmpu. Avòggja a gridà, òn mmà ntièsu nùddhu”. La donna rispose che, qualche tempo dopo averlo lasciato in cantina, era tornata per controllare e, non avendolo visto, aveva dato per scontato che terminato il lavoro fosse andato via. Pertanto aveva chiuso a chiave le porte ed era partita.
Era invece successo che, “travasa travasa”, Cannàcca di vino ne aveva assaggiato troppo. Voleva attendere la moglie di Pasquale, per spiegare il lavoro fatto, ma l’ubriachezza l’aveva tradito e s’era sdraiato dietro il tino addormentandosi. Non si era accorto del ritorno della donna ed era rimasto chiuso nel locale. Aveva urlato a squarciagola ma la cantina aveva l’unica finestra che dava su una corte all’interno, dove nessuno poteva udirlo. Per sua sfortuna, Pasquale aveva diviso i locali a pianoterra. Sulla strada dava la porta del magazzino, diviso dalla cantina da altra porta intermedia che, chiusa, aveva impedito alle urla di Cannàcca di essere udite dalla strada.
Capito che la “prigionia” poteva durare a lungo e memore di quella patita da militare, Cannàcca si era organizzato ed aveva adattato a latrina un secchio. Lavarsi non era possibile, perché non c’era presa d’acqua, ma per il mangiare non aveva problemi, perché il locale, oltre che a cantina, Pasquale l’aveva adibito a deposito di stagionatura per salumi e formaggi. Durante la prigionia, Cannàcca s’era bevuto “nà dàmigianeddha” da venticinque litri di vino vecchio e s’era mangiato “dùi supprìssati, nù pàru ì càpu i savuzìzza e nnà mènza pèzza i fùrmaggiu”. Quando è stato liberato dalla moglie di Pasquale, aveva appena dato mano ad un vasetto di “vrishjoli” ma il grasso in cui erano immerse aveva scoraggiato la prosecuzione.
L’avventura di Cannàcca, resa subito di pubblico dominio suscitò ilarità e commenti di varia natura. La legge dopo approfondite indagini concluse che non vi erano colpe. Per un po’ il nostro uomo condusse vita solitaria presso una casetta che possedeva in campagna. Non voleva essere “sfuttùtu” e voleva evitare che amici e conoscenti “ avìssinu à ssì pià nà pìzzicata”. Per questi motivi fece un periodo di esilio volontario, per evitare le conseguenze della sua reazione alle inevitabili battute. Voleva evitare di mettersi nuovamente nei pasticci.
Con la moglie fu diverso e ne dovette accettare le ironie e qualche leggero sfottò. Seppur ubriaco, aveva previsto che con la consorte non l’avrebbe passata liscia. La donna, quando vide in quali condizioni rientrava dalla forzata prigionia, lo accolse con queste parole: “mò ti mìeritasi davèru i ti fà chiamà cannàcca, ti càvuzadi e ti vèstidi ppicchì sì luòrdu e fètisi pròpiu cùmu nù zìmmaru”.
Dicembre 2011
Minucciu

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2 commenti

    • Giovanni Benincasa il 1 Febbraio 2012 alle 16 h 52 min
    • Rispondi

    Bella anche questa. In particolare ho trovato piacevole ricordare tutto ciò che ci mandavano a raccattare pur di vedeci sparire per un po di tempo. E si! nna viana da na picchi i ntrattieni.
    Saluti a Lei Sig. Minucciu!

    • ARMANDO BUONO il 14 Febbraio 2012 alle 8 h 56 min
    • Rispondi

    nel secolo scorso,durante i primi decenni le famiglie numerose
    erano n u m e r o s e ,specialmente nei piccoli paesi-
    Noi eravamo in dieci-grazie anche penso alla campagna demografica del regime- I piu’ piccoli generalmente venivano
    sistemate presso famiglie amiche che in sostanza svolgevano
    i compiti degli asili( inesistenti nei piccoli paesi)-

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