Cùmu putèra ghèssi: Amapòla.

Luigi Bisignani

Ricevo da Minucciu e con piacere pubblico

CULTURA

 

 

Amapòla.

cultura-sandonatese.jpgGuardava verso il cielo stellato di quella serata primaverile ed attendeva che la falce di luna calante, in viaggio nel cielo, come accaduto in altre notti, si sovrapponesse alla croce del campanile “dà chjèsia dà tèrra”, che per questo veniva ad assumere le sembianze di un minareto, ornato dalla mezzaluna islamica.

Aveva pregato sua madre di avvicinare la poltroncina nei pressi della finestra, che aveva preteso aperta nonostante la frescura, ma non aveva rifiutato d’essere cautelato “à nà mànticèddha ì làna” con la quale amorosamente la donna l’aveva avvolto.

Godendosi la calma della notte “Ricucciu” si trovò a pensare che all’età di ventotto anni (guarda caso lo stesso numero dei giorni del ciclo lunare), era veramente malmesso, relegato com’era in casa e ridotto a trascorrere la maggior parte del suo tempo, passando dal letto alla poltrona e viceversa. Era ammalato, per via “ì quìru màli chì dd’àvìa piàtu àru sànghu”, una grave forma di leucemia che per la medicina dell’epoca era incurabile, “nù màli” che non gli avrebbe lasciato scampo.

Soffriva la solitudine “Ricucciu” e sapeva che ciò era dovuto, in buona parte, al simbolico muro col quale la famiglia, secondo il costume vigente, “vùlìadi àmmuccià à vrigògna dà màlatìa”. A questa usanza aveva concorso anche “à pagùra i vìnì mmìschati” (determinata da atavica superstizione e figlia dall’ignoranza), circostanza che aveva tenuto alla larga la maggior parte di parenti ed amici, a cui si era aggiunto anche quel sentire comune di “situazione non conveniente”, cosa  “c’àvìadi àlluntanàtu pùru a zìta”.

Mentre rifletteva su queste contingenze, gli parve di sentire il suono di un clarinetto che intonava le note di un motivo musicale a lui caro. Qualcuno suonava “Amapòla”, struggente motivo di scuola spagnola composto e musicato nel 1924 da José María Lacalle García e successivamente cantato in italiano da Giorgio Consolini, il cui disco, per un certo periodo, nel nostro paesetto, ebbe un buon successo quale sottofondo per i primi timidi balli “lenti” . Alle note iniziali del clarinetto si aggiunsero quelle del sax basso, di un flicornino, di una tromba, del trombone tenore e dell’immancabile chitarra. Ricucciu, con un sorriso triste, godeva della musica arrangiata con quel ritmo lentissimo che a lui piaceva tanto. Gli fece dispiacere di non poter essere della compagnia col suo sax tenore, cosa che accadeva fino a circa quattro mesi prima, in quel lasso di tempo precedente il manifestarsi dei primi sintomi del male “chì sù stàva mangiànnu e rù stàvadi àddissiccànnu”.

Gli amici si superarono nell’eseguire il brano “in continuo” e Ricucciu attese invano la “stecca” che solitamente, nelle esecuzioni, a turno veniva presa da ciascuno dei componenti il gruppo musicale.  Sorrise pensando che quei ragazzi, addossati al cantone di una casa delle vicinanze, con quella canzone tentavano di alleviargli il dolore, somministrandogli una buona dose “ì pàparìna” (in lingua spagnola, amapola ha appunto significato di papavero).

Intanto che ascoltava compiaciuto, avvertì, in modo progressivo, lento e costante, d’essere pervaso da un senso di leggerezza che alleviava la percezione del dolore e dell’oppressione causategli dallo stato di malattia. Ebbe la sensazione di librarsi leggero, di sollevarsi dalla poltroncina e salire verso il soffitto della stanza ed attraversarlo, così come da bambino aveva visto fare, nei film di fantascienza, a quei personaggi capaci di smaterializzarsi, oltrepassare solidi ostacoli per poi ricomporsi e riacquistare corporeità.

La sensazione di leggerezza cresceva fino a fargli superare il tetto della sua abitazione, oltre il quale si librò verso l’alto, il tanto da poter ammirare la panoramica del suo paese e poi di quelli circostanti. Ricucciu ascese tanto che il tono della canzone suonata dai suoi amici diveniva sempre più flebile, mentre il globo azzurrognolo del pianeta Terra si allontanava e diveniva sempre più piccolo, inizialmente circondato e poi inghiottito dall’oscurità, fino a scomparire del tutto.

Mentre procedeva leggero nelle tenebre, percepì di non avere più un corpo, d’essere divenuto leggero come un pensiero, un’idea, d’avere la consistenza di un punto (quella infinitesima porzione di spazio, sulla quale, i filosofi greci, speculando, avevano congetturato quei teoremi sui quali lui aveva dovuto tribolare ai tempi del liceo).

Gli venne di pensare che la situazione era buffa. Nascevi dall’oscurità del grembo materno ed alla vita ci arrivavi procedendo dal buio verso la luce e per morire dovevi fare il percorso inverso, o almeno questo era ciò che a lui stava succedendo. Queste riflessioni circa la conclusione della sua avventura terrena non gli causarono dispiacere, spavento o preoccupazione. Gli venne di riflettere sui racconti che sin da ragazzo aveva sentito narrare da coloro che, dalla morte, sostenevano d’esserci passati e raccontavano di visioni fantastiche ed altre meraviglie, tutte inondate da dolcissima e celestiale intensa luce.

Racconti che al momento trovava infondati e privi di veridicità. Attorno aveva il nulla avvolto dal buio più completo. Ne concluse che la morte è il buio, è il nulla e come tale la luce gli è estranea ed incompatibile.

Gli sovvenne di riflettere sulla nascita, evento del tutto casuale, determinata dal favorevole concorso di più circostanze, molte delle quali avvengono e funzionano operando nel buio. Nel buio è immerso l’utero materno ove avviene la primaria azione d’essere della vita umana ed al buio è il seme sepolto nella terra dalla quale germoglierà nascendo alla vita.

Madre natura ha voluto dire la sua sull’argomento inviandoci un chiaro messaggio quando ha scelto di posizionare gli organi della riproduzione umana in zona “riparata”, non esposti al chiarore. Queste valutazioni gli fecero concludere che, se la vita inizia al buio, non c’è nessuna ragione per la quale debba terminare con sfarzo di luci. Il buio è più pertinente, al buio non si notano differenze, siamo tutti uguali perché tali ci ha reso la morte.

Queste riflessioni accompagnavano un tranquillo ed incorporeo  Ricucciu nel suo procedere verso l’ignoto ed attraverso il buio assoluto. Non sapeva dove stesse andando e non desiderava affatto saperlo. Al momento, questo particolare non era importante e non aveva alcuna rilevanza.

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1 commento

    • giovanni il 13 Aprile 2016 alle 12 h 49 min
    • Rispondi

    Un caro saluto a Minucciu.

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