Parmaria : Marfùsu

Luigi Bisignani

 

 

“Marfùsu,ziu Rafeli  e u pedi i castagna curcia.” 

‘U pédi i castàgna cùrcia, ntà partìta all’Acquicèdda” era l’orgoglio i zù Rafèli ed anche oggetto dell’invidia dei confinanti che le avevano provate tutte per riprodurlo, sia trafugando castagne poi seminate per ottenerne il ceppo, sia ponendo in essere tentativi di innesto con rametti sottratti, tentativi tutti falliti. L’albero, maestoso e rigoglioso, dava frutti di dimensioni maggiori, rispetto alla gia consistente “curcia” normale, con prezzo di vendita adeguato alla tipologia di castagna di per se pregiata. L’eccelsa qualità e la dimensione dei frutti oltre che la bellezza del tipo di pianta, unica sopravvissuta di un esperimento tentato decenni prima, erano il risultato delle attenzioni e delle cure poste in essere dalla proprietà che faceva “jazziare”  il terreno e potare le piante con frequenza. Sulle piante non allignavano né rami secchi nè si notavano “curizzi” o rami ancora verdi ma con le galle, che denunciavano la presenza di parassiti. Anche il prelievo della “frasca”, allo scopo di nutrire pecore e capre ed alleggerire le piante, da parte dei pastori era effettuata a primavera inoltrata e demandata a due soli allevatori di fiducia che non provocavano danni.

Zù Rafèli era proprietario terriero, di famiglia numerosa e ricca e, per sovrapposizioni e successioni di matrimoni, imparentato con quasi tutte le famiglie maggiorenti del paese. Questo stato sociale, al pari di molti che si fregiavano del “don” non lo aveva insuperbito, anzi, si mostrava disponibile e gentile con tutti ed era generoso. Dalle sue terre, periodicamente, i bisognosi, paesani o di passaggio, asportavano il necessario per sopravvivere e placare la fame e quando venivano presi sul fatto dai fattori o dai sorveglianti, Zù Rafèli aveva preteso di esserne avvertito ed aveva imposto che nessuno facesse ricorso alla legge; la questione la risolveva lui, tanto i danni agli affittuari o mezzadri li avrebbe rifusi personalmente.

Unica eccezione era per piccola partita di castagne dell’Acquiceddha; li era meno tollerante perché era  frutto e vanto di un esperimento botanico operato dal nonno e non tollerava intrusioni, tanto che il servizio di guardiania delle proprietà aveva disposizione di passarvi almeno una volta al giorno, specie durante il periodo vegetativo.

La presenza dei guardiani sulle proprietà di Zù Rafèli aveva urtato la suscettibilità di Marfùsu, giovinastro così soprannominato dai sandonatesi, che in quell’agnome avevano concentrato tutte le qualità che lo contraddistinguevano:  furìsi scombinato; ladro all’occasione; vagabondo sboccato e bestemmiatore; discreto e riservato quanto può esserlo un banditore nell’esercizio delle funzioni;  ubriacone, prepotente e di pessimo carattere; perennemente armato di accetta ed aggressivo con chiunque, specie le donne con le quali si comportava da porco; poco o nulla curato nell’aspetto ed altrettanto poco amante dell’acqua e del sapone. Marfùsu viveva in perenne conflitto con il genere umano e le precauzioni adottate da Zù Rafeli, a tutela dell’Acquicèddha, più che un limite alla sua libertà di movimento, erano sfida e provocazione alla sua visione del mondo ed al suo stile di vita. Si sentiva defraudato dalla guardiania, perché, secondo la sua filosofia, tutto ciò che vedeva o lo circondava gli apparteneva; non riconosceva la proprietà privata perché,  asseriva, “ù mùnnu ghè di tutti”.

Un giorno di settembre, il turno di guardiania, “àri castàgni ntàvulàti all’Acquiceddha”, era toccato a zù Nicola, brav’uomo sulla cinquantina, il quale rifiutava di circolare armato, convinto che nessuna bestia è più cattiva dell’uomo per attaccarlo senza ragione e nessun uomo, per quanto cattivo, e così stupido da procurar male senza valido motivo. Il poveretto non aveva tenuto conto della natura di Marfùsu, il quale, lo prese di spalle e quasi lo accoppò colpendolo alla testa “ccù cuòzzù dà ccètta”; tutto per raccogliere e portarsi via un sacco da mezzo tomolo di castagne. E questo fu il primo errore di Marfùsu, il quale confidava in don Ciccìnu, altro grosso proprietario, che sapeva roso dall’invidia “ppì quìru pèdi i castàgna”. Il nobile, a suo tempo, aveva anche interessato alcune conoscenze nel beneventano, da dove circa un secolo prima le piantine della “cùrcia” erano state importate, con lo scopo di ottenere piante almeno simili, ma senza esito. Ritenendo di poter sfruttare a suo favore dette circostanze, Marfusu andò dal nobiluomo ed offrì in vendita i frutti. E questo fu il suo secondo errore, perchè Don Ciccinu, non solo lo fece cacciare in malo modo dai servi, ma si premurò di far avvertire riservatamente ziu Rafèli dell’accaduto.

Dopo qualche giorno di letto, zù Nicola si ristabilì e con i figli tenne consiglio sul da farsi; i due maschi gli dissero di non impicciarsi che la questione l’avrebbero risolta loro. Difatti, di li a qualche giorno, Marfùsu, all’uscita da una cantina, mentre imboccava una “vanedda” per vuotare la vescica, venne semistordito con un cazzotto, coperto con un grosso sacco e velocemente portato verso i costi da Spilùngura e li, “paliàtu e purripàto ntà còsta dà jumàra”.

Come l’erba cattiva che non muore mai, Marfùsu se la cavò con la frattura di una tibia e contusioni ad arti e costole, causa gli urti contro alcune grosse pietre; più dolore che danno. Durante il riposo forzato divenne più cattivo ed iniziò a meditare vendetta. Non poteva contro i figli di zù Nicola, che aveva individuato come suoi aggressori e che, alla bisogna, per decisione e cattiveria non gli stavano secondi. Il risentimento era contro zù Rafèli, che riteneva, a torto, mandante del pestaggio ai suoi danni e quindi responsabile dei guai fisici che stava soffrendo..

Colpire fisicamente e nella persona zù Rafèli, brava persona si, ma abbastanza potente da annientarlo, non era nemmeno ipotizzabile perché, anche “nù salivàticu” come Marfusu, sapeva bene che per un sandonatese, “tuòstu” fin che ti pare, c’erano dei limiti invalicabili che era bene non tentare di oltrepassare. Pensò pertanto di dare corpo alla sua vendetta “ncànnaccànnu” la partita di castagne all’Acquicèdda e quindi anche l’albero al quale zù Rafèli teneva tanto.

Occorre precisare che “ncannaccà” significa intagliare la corteccia e interrompere il flusso della linfa e così provocare la morte della pianta interessata. Era un modo particolare di attuare una vendetta, colpendo il nemico nei beni. Con l’accetta si praticava un taglio alla corteccia nella base di una pianta, rasente il terreno e la si ricopriva con terra ed erba, il tanto da non far individuare immediatamente il danno. Generalmente “à cannàcca” veniva praticata all’inizio del fermo vegetativo, in modo che il proprietario poteva costatare il danno solo in primavera, troppo tardi per verificare eventuali sospetti.

L’anno successivo, fra la fine di marzo e gli inizi d’aprile, pochi assistettero alla corsa trafelata della cavalla di zù Rafèli verso l’Acquicèdda. Davanti alla pianta priva di germogli ed al solco alla base del tronco, segno evidente di ciò che era accaduto, zù Rafèli non disse una sola parola. Dispose che tutte le piante interessate venissero abbattute e vendute per farne tavole e legna da ardere, meno che il tronco della “cùrcia”; quello no, doveva rimanere li dov’era, monumento all’ignominia ed alla stupidità umana. Zù Rafèli, pur dissimulando, accusò il colpo; non pensava di meritare danno ed oltraggio dei quali era stato oggetto. In breve tempo si incupì, perse la verve e divenne “lièntu e addissicàtu”; pareva disinteressarsi di tutto, pian piano si estraniò e perse ogni interesse per ciò che lo circondava.

Dopo la scoperta del danno, Marfùsu ritenne prudente non farsi vedere e sparì; nessuno si preoccupò, quando l’assenza si protrasse, anche perché in paese non aveva praticamente amici ed i lontani parenti, seppur emigrati da anni, l’avevano cancellato dall’elenco dei familiari.

Agli inizi di maggio, in paese si sparse la voce che a zù Rafèli avevano scoperto una brutta malattia e correva voce che avesse i giorni contati. A fine mese, “u prèviti” venne visto recarsi frettolosamente presso l’abitazione di zù Rafèli per l’estrema unzione; due giorni dopo si tennero le esequie.

L’anno dopo, di maggio, venne celebrata la messa per l’anniversario della morte di zù Rafèli. Il prete arrivò a chiesa gia piena e notò che, alla base dei gradini per l’altare, mano ignota aveva depositato un’accetta che parecchi dei presenti riconobbero come quella appartenente a Marfùsu. Il senso profondo del gesto e cosa volesse significare, molti non lo capirono; il messaggio implicito nel gesto comunque giunse a destinazione.

La notte stessa il prete, svegliato di soprassalto, sacramentò perché qualcuno bussava alla sua porta.  Era uno dei figli di zù Rafèli, accompagnato da due coloni del defunto padre. Col vincolo del segreto della confessione,  i due riferirono che, alcuni “amici”, dei quali non potevano nè volevano rivelare i nomi, ai primi segni della malattia, avevano scovato Marfùsu, nascosto nelle campagne di Altomonte, lo avevano catturato, punito adeguatamente e poi portato all’Acquicèddha e finito “mpedi ara curcia” ove poi era stato seppellito. Il figlio di zù Rafèli, che della faccenda era stato messo a parte un’ora prima, pregò il prete di far recuperare ciò che restava “ì quìru armàniu” e dargli cristiana sepoltura.

Verso l’alba si scatenò una bufera di vento accompagnata da tuoni e fulmini, quali non se ne erano mai visti e sentiti prima. Durante la tempesta un fulmine colpì verso “i Cuòzzi incendiando la vegetazione. A giorno fatto si scoprì che era stato colpito e disintegrato il tronco secco della “curcia”, la cui ceppaia continuava a bruciare. Il povero prete attribuì alle dette circostanze i segni della collera divina, forse contraria al recupero dei resti di tanta umana cattiveria. Ora sapeva come meglio regolarsi. Si recò all’Acquicèdda  e, dopo aver impartito la benedizione, fece soffocare il fuoco e seppellire la ceppaia con palate di terra.

Il prete, benedicendo le ceneri della “curcia” aveva benedetto anche i resti del corpo seppellito sotto. Poi, ricordandosi i “segni” ricevuti dagli eventi atmosferici e di essere  “don” due volte, quale prete ed quale appartenente alla nobiltà,  ritenne che in fondo il luogo del riposo eterno non aveva molta  importanza. Marfùsu stava bene dov’era; aveva voluto vivere da animale e tale poteva rimanere anche da morto e sepolto. E poi c’erano altre e più gravi faccende di cui preoccuparsi; proprio in quei giorni, da parte dell’Italia, era stata annunciata la dichiarazione di guerra all’Austria-Ungheria. Ed il prete aveva parenti in età da essere chiamati alle armi.

Maggio 2012

Minucciu

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2 commenti

    • Alfonso OTTATO il 28 Maggio 2012 alle 16 h 59 min
    • Rispondi

    Grande Minucciu! Grazie per queste stupende” parmarii” della
    nostra storia che solo e soltanto noi le possiamo capire.
    Saluti Alfonso OTTATO

    • Giovanni Benincasa il 28 Maggio 2012 alle 21 h 59 min
    • Rispondi

    Complimenti una altra memoria che ho letto e riletto avidamente.
    Cordialità! Giovanni

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