Cùmu putèra ghèssi :A gùccia.

Luigi Bisignani & Minucciu

Cùmu putèra ghèssi

 

 

cultura-sandonatese_thumb.jpg“U’ suònnu ì Pitrùzzu” venne interrotto da un insistente, molesto ed irritante ticchettio “ì nà gùccia”. Infastidito sollevò la testa dal giaciglio sul quale era disteso ed aiutato dalla tenue luce dell’alba, che filtrava “à nù sfilàgghju”, guardò verso “à cànna da vèna”.

Non vide cadere nulla ma  sentì ugualmente la goccia battere. Ancora insonnolito guardò “àru làstricu”  e  notò “ù làccu” ove s’era raccolto del liquido. Poi rivolse lo sguardo “àru cànnìzzu” e soffocò a stento l’urlo che gli saliva in gola. “Dà catarràtta” semiaperta si intravedeva una mano penzoloni ed un ciuffo di capelli, dai quali  colavano gocce che, a prima vista, sembravano sangue.

Pitrùzzu era “tuòstu” e sebbene scosso da quel che aveva visto, salì la scala a pioli per verificare cosa stesse accadendo nella soffitta. Aiutandosi “ccù nnà lucèrna” vide il corpo nudo di una donna, morta “ppìcchì avìadi à càpu spaccata”. Nella poveraccia Pitrùzzu riconobbe l’unica figlia femmina di una numerosa, potente e ricca famiglia del vicinato, ragazza con la quale, a suo tempo, vi era stata una passeggera simpatia, senza conseguenze né seguito.

Escluse subito di poter essere lui autore “dà chjànca”, perché ricordava benissimo di aver passato la serata da solo, di aver chiuso la porta “ccà màschètta” e d’essersi addormentato presto, “stàncù ì nà jurnàta ì zappùni”.

Non sapeva spiegarsi il percome ed il perché dell’accaduto, né immaginava chi poteva avergli fatto tanto regalo, lasciandogli in casa una ragazza con la testa aperta “cùmu nù milùni d’àcqua”.

Queste considerazioni non lo consolarono affatto. Sopravvenne il timore di quel che la famiglia della morta avrebbe posto in essere per vendicare l’affronto, sia all’onorabilità (per il corpo nudo), sia alla consolidata posizione di privilegio ed impunità, connaturata con la rilevante posizione sociale (per l’omicidio). Benché fosse tipo deciso, Pitruzzu, da solo, non poteva fronteggiare “à mùrra ì fràti e pariènti” della ragazza morta, noti per la caparbietà nel perseguire qualsiasi obiettivo si proponessero e per la cattiveria e la crudeltà con la quale infierivano “cùntra ì nimìci”.

Non aveva parenti tanto stretti di cui potersi fidare. Pertanto, Pitrùzzu decise che il problema doveva risolverlo fidando solo nelle sue forze. Prima ripulì la stanza dal sangue ed avvolse il corpo “ntà nà mànta ì làna”, ciò in attesa del momento giusto (la notte) per disfarsi in modo discreto del corpo e fare in modo che non ne rimanesse traccia.

Nell’oscurità della notte seguente, Pitrùzzu attraversò il paese con un sacco sulle spalle e si diresse “àri pètri ì Sàntuvàrdìnu”, dove sapeva esserci “àpis” capaci di ricevere e far sparire il corpo. Ebbe dispiacere nel doversi disfare della “mànta”, tessuta da sua madre,  ma tenerla era troppo pericoloso perché “à làna mantènidi ù sànghu” le cui macchie ricompaiono sempre, anche dopo diversi ed energici lavaggi.

La scomparsa della ragazza mise sottosopra il paese, vuoi per la gravità del fatto in se (cosa mai successa prima), vuoi per “sùggizziùni e bricàzziùni” verso la famiglia dalla quale dipendeva la sussistenza di metà paese, che manifestò dolore e solidarietà e partecipò attivamente alle ricerche.

Intervenne “à lèggi” che, esclusi “a fujìtìna” per amore (non c’erano i presupposti) ed il rapimento a scopo di riscatto (non erano giunte richieste in tal senso), con l’ausilio della famiglia stilò un elenco di “sospetti” da sottoporre a rigorosi accertamenti e fra questi Pitrùzzu, vicino di casa,  scapolo solitario e protagonista  “do filarièddhu” che non era stato dimenticato. Tutte le case sospette venero ispezionate ed in quella di Pitrùzzu, “nù càrbbunièri” con l’occhio lungo, sui pioli della scala della soffitta trovò alcune gocce di sangue. Pitrùzzu che era presente, si sentì mancare e perse la lucidità, quel tanto da non poter raccontare in modo lineare  e convincente le modalità di ritrovamento del cadavere nella soffitta, né motivare adeguatamente le ragioni per cui si era disfatto del corpo.

Ebbe l’ergastolo e dopo il periodo di isolamento (tre anni), venne assegnato alla sezione più “dura” dove l’attendeva una brutta sorpresa. La famiglia della ragazza s’era acquistata i servizi di altri reclusi ai quali avevano commissionato un regime di vita grama, “extra pena”,  al quale sottoporre Pitrùzzu, chiedendo espressamente  la sua trasformazione in “zòccula” della sezione, compito che si accaparrò “ù sàracinàru”, un ergastolano noto per cattiveria ed estrema crudeltà.

Per tre nottate Pitrùzzu non chiuse occhio deciso a difendersi dall’assalto dei compagni di cella. La quarta notte il sonno ebbe il sopravvento e si ritrovò, nudo e bocconi, legato alla branda, con accanto lo sguardo maligno “dò sàracinàru”. Ebbe paura ed iniziò a sudare copiosamente preparandosi al peggio.

E spaventato e sudato si svegliò, ma a casa sua, disteso nel giaciglio sul quale, stanco morto, si era disteso la sera prima.

Era ancora notte fonda e la luce della luna, “à nu sfilagghiu” illuminava debolmente la stanza. Pitruzzu si guardo attorno e vide sua madre che riposava sul lettino “arripàtu àru mùru”.

Mentre si consolava al pensiero che quel che aveva vissuto era solo un brutto sogno, udì una goccia cadere. Non diresse lo sguardo verso la fonte del rumore. Non ebbe né il coraggio, né la forza d’animo, né l’energia per girare il capo e guardare.

Ebbe una sgradevole sensazione di freddo “chì vinìadi dè stintìni” e venne assalito da una debolezza estrema e percepì che le forze lo stavano abbandonando “sì sìntièdi vinì mìnu, ù cuòrpu trùmmuliàvadi e rì midhùddha jìènu ppì fàtti sùa”. Al malessere generale si sovrappose anche una forte sensazione di paura che a breve divenne un irrazionale terrore che pervase Pitrùzzu, impadronendosi del suo corpo e della sua mente.

La madre scoprì Pitrùzzu rattrappito nel giaciglio, morto e con le mani strette attorno alla “manta”, di cui teneva il bordo stretto fra i denti. Il medico diagnosticò un decesso “pì nnà gùccia”, definizione tutta paesana per indicare un malanno causato dall’improvviso calo dei parametri vitali.

La veglia funebre i Pitrùzzu fu scandita ed accompagnata dal fastidioso gocciolare “dà cànna da vèna ì jìntu” alla cui riparazione “ù fùntanièri”, benché sollecitato, “dòppu nà simàna” non aveva ancora provveduto.

Agosto 2015

Minùcciu

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1 commento

    • Luigi Simeone il 25 Agosto 2015 alle 7 h 43 min
    • Rispondi

    Grande Minuccio!
    Nemmeno il miglior Le Carre’,avrebbe saputo partorire in cosi’ poco spazio,un piccolo capolavoro del genere giallo.Grazie per tutto cio’ che scrivi.

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