Come eravamo : E’gghjùta àccussì.

La Redazione & Minucciu

“Bièddhu. Cùmu n’attòri i cìnimu! Era “ù cumprìmentu”, la frase che gli veniva rivolta spesso a commento della pettinatura a “bòcculi” che la sua ondulata e folta capigliatura consentiva. Glielo avevano detto e ripetuto anche le compagne di scuola, circostanza questa che, per quei tempi, era di straordinaria audacia. Si era convinto d’essere bello e tale si atteggiò dopo essersi riconosciuto nelle fattezze di un attore famoso e gli amici, un po’ per farlo contento e molto per sfottere iniziarono a chiamarlo con quel nome fittizio.

Aveva nel volto le fattezze della madre, che era una bella donna ma nel fisico era “mannarinu ppìcchì avìa piàtu do patri” e questo un po’ lo intristiva. La passione però vinse sul metro ed il nostro sosteneva, come tanti altri compaesani di statura limitata, che l’uomo non si misura a palmi, la statura era una variante trascurabile, per gli attori contava il volto, la bellezza ed in proposito citava la limitata altezza di tanti altri divi del cinema, fra i quali citava Ladd, Bogart, Gable.

L’altro protagonista di questa storia era nato un lustro dopo ed i due, finché restarono in paese, non ebbero modo di frequentarsi né instaurarono rapporti al di la della semplice conoscenza paesana.

“U bièddhu” apparteneva a famiglia di qualche possibilità economica ed ebbe la possibilità di studiare.Dopo le “medie” in San Sosti, venne sistemato in Castrovillari per frequentarvi le scuole superiori ed ottenere quel pezzo di carta che in quei tempi “gràpìadi tànti vìj”, ti garantiva impiego sicuro e dava lustro alla famiglia perché il sandonatese, pur non stravedendo per la cultura, al prestigio che deriva da un titolo di studio ci teneva ed ancora ci tiene eccome.

Era fissato con i fotoromanzi, pubblicazioni di tipo popolare di moda fra la gioventù negli anni cinquanta e passava ore davanti allo specchio studiando pose del volto, pettinature ed espressioni. Scelse quella che lo avvicinava all’attore cui si ispirava, ad occhi socchiusi, la bocca atteggiata a metà fra un sorriso ed il broncio con labbra semiaperte, pettinatura “rovesciata senza scrìma” che mandava in bestia il barbiere che per realizzarla impiegava il doppio del tempo necessario a servire un cliente.

In Castrovillari restò per due anni, entrambi trascorsi nella prima classe,perché bocciato. A modo suo studiava, si applicava ma s’era reso anche conto di non essere votato per l’istruzione. In testa, delle lezioni a scuola e delle letture a casa, non restava nulla, perciò, alla seconda bocciatura, rinunciò al pezzo di carta e rientrò in paese con scarse prospettive. Veramente non era vero che da Castrovillari era rientrato a mani nude. Di carta ne aveva riportato tanti pezzi. Erano foto formato tessera, in varie e mutevoli espressioni che gli erano costate qualche soldo ma, secondo i suoi progetti, di li a poco sarebbero state nelle mani di registi di cinema e produttori di fotoromanzi.

L’altro protagonista di questa storia, di pomeriggio, dopo i compiti scolastici, andava a bottega per scegliere quale mestiere imparare.

“U bièddhu” intanto era stato lasciato “da quatrara”, forzata in ciò dai genitori che vedevano nel ragazzo “nà pètra c’òn cògghj lìppu” e gli amici per questo lo sfottevano chiamandolo Gino Cervo. Era un disoccupato volontario e pur non praticando alcuna attività, non stava mai fermo, era sempre in giro impegnato in veloci passaggi da un rione all’altro. Era sempre spedito, sbrigativo e giustificava la sua fretta con appuntamenti da rispettare o “mmàsciàti” da portare a termine. Aveva una inclinazione particolare per la “liggèra” ed una considerazione troppo alta di sé per abbassarsi a cercare o praticare una attività, un lavoro qualsiasi. In breve in famiglia gli venne detto chiaramente che, volendo veramente salvare faccia ed apparenza, un qualcosa per campare doveva pur farla. Se non se la sentiva di “diminuirsi” a fare lavori od attività “paesane”, poteva fare come tanti altri, andare altrove dove, non essendo conosciuto e non avendo “status” da difendere, poteva guadagnarsi da vivere anche “spalànnu mmèrda”, come ebbe a dirgli suo padre, il quale, vedeva dignità in ogni lavoro, purché onesto.

Come tanti altri sandonatesi prima e dopo di lui,”ù bièddhu” salì speranzoso su quel treno che lo avrebbe portato lontano dal paese in cerca di fortuna e di un avvenire migliore, seguito di li a tre anni dall’altro protagonista di questa storia, “ù mastru”” che nel frattempo i rudimenti di un mestiere l’aveva imparati

Qualche tempo dopo, in una località del nord Italia, al rientro dal lavoro, “u mastru” trovò “ù bièddhu” su uno dei letti della stanza della pensione dove abitava. Aveva un’aria abbacchiata, l’aspetto piuttosto smagrito e trasandato, con indosso una giacca stazzonata, un pantalone sformato ed una camicia lisa (lui, che l’abbigliamento lo curava eccome). A fatica disse di essere appena arrivato e di aver avuto un contatto per un lavoro presso un lanificio artigianale. “U màstru” stette ad ascoltare le traversie e le delusioni che il dorato mondo dello spettacolo gli aveva riservato. Per poter cercare ed ottenere lavoro nel settore, “ù bièddhu” s’era dovuto iscrivere sia al collocamento, come generico dello spettacolo, sia al sindacato dal quale aveva ricevuto solo promesse e tre giornate lavorative come facchino sui set cinematografici. Poi nulla e per campare, si era dovuto arrangiare con “attività collaterali”che facevano perno attorno alla zona ed al mercato di Porta Portese, ciò fino a che non era stato individuato e schedato da alcuni agenti del commissariato. La sua presenza a Roma era bruciata ed un aiuto gli venne da un “generico” di origini piemontesi, dal quale aveva ottenuto l’indirizzo del lanificio dove era stato appena assunto.

Tre settimane dopo tornò in albergo con un occhio nero e la liquidazione. Aveva rintuzzato un rimprovero del caporeparto (uno stronzo a suo dire), e poi erano venuti alle mani, circostanza che aveva provocato il suo immediato licenziamento.

Da questo episodio avvenne la sua discesa agli inferi. Campò alla meno peggio con lavoretti occasionali e qualche regalo da “amicizie particolari”. Frequentò la zona di porta Palazzo dove patì qualche fermo da parte dei carabinieri. Poi si imbarcò a fare coppia con un siciliano, già suo compagno di cella, e venne nel giro della prostituzione notturna nel parco del Valentino e ai Murazzi lungo Pò. Attorno al Natale, verso le quattro di notte, la stanza venne invasa dai carabinieri che portarono via il nostro attore in manette.

Venuta la chiamata alle armi, “ù màstru”, invece dell’esercito, scelse di fare servizio di leva nella polizia e mentre era a Milano, trattando un rapinatore, nella stessa cella ti trova “ù bièddhu”, fermato dalla “buon costume” perché pizzicato in atteggiamenti sospetti nel parco Ravizza, all’epoca zona nota per le “marchette”. Dissimulata la sorpresa “ù màstru dìvintàtu sbìrru”, non mosse ciglio, agì come se non lo conoscesse. “U bièddhu” mostrò disagio, però capì le intenzioni e fece un lieve cenno con la testa. Per alleviare un po’ la permanenza in cella, “ù mastru” gli fece avere generi di conforto, delle sigarette e qualche banconota.

I protagonisti di questa storia non ebbero più occasione di incontrarsi se non molti anni dopo, in paese. “U màstru” passava “sùtta ù mùru i l’alborètti àra Siddhàta” e vide “ù bièddhu” mentre fumava appoggiato alla ringhiera. Aveva alle labbra quel sorriso a metà fra il sardonico ed il broncio. E non poteva che essere così. Ci aveva impiegato una vita per farlo sembrare naturale.

“U màstru” colse la stessa ombra del disagio di anni prima e gli fece un saluto “muto” al quale “ù bièddhu” rispose con un impercettibile cenno del capo. Non v’era necessità di aggiungere altro, “ccù nnù nzìnnu s’àviènu dìttu tùttu quìru chi cc’èra ddà dì”.

E’ la storia di due dei molti giovani che cercarono altrove ciò che il luogo natio non poteva loro offrire. Fra i tanti, troppi emigrati, ad alcuni l’avventura era riuscita; altri si erano arrangiati, qualcuno aveva giocato male la mano di carte avuta in sorte.

Post scrìptum: “Sedulo curavi humanas actiònes non ridère, non lugère, nèque detestàri, sèd intelligère”.Lo ha scritto e sostenuto Baruch Spinoza, (1632-1677), ebreo di nazionalità olandese, filosofo perseguitato perchè ateo dichiarato.

Settembre 2013-

Minucciu

Permalink link a questo articolo: http://www.sandonatodininea-cs.it/2013/09/20/come-eravamo-e%e2%80%99gghjuta-accussi/

3 commenti

    • giovanni il 20 Settembre 2013 alle 14 h 05 min
    • Rispondi

    Un caro saluto a Minucciu.

    • un sandonatese il 23 Settembre 2013 alle 12 h 39 min
    • Rispondi

    BELLA STORIA DI VITA ,MI FA RIVIVERE QUANDO DA RAGAZZO PASSAVO SOTTO LA FINESTRA ALLA SALITA DOPO MATALENA I CUCCI,DOVE ABITAVA MINUCCIO(U MASTRU )MELO RICORDO COME UN BEL RAGAZZO ANCHE SE IO ERO MOLTO PIU GIOVANI DI LUI ,DOPO CHE PARTI IN POLIZIA NON LO PIU RIVISTO,U BIETTRU CHE GIRAVA CON IL BOCCOLO CHE NOI TUTTI CHIAMAVAMO GINO CERVI CHE MOLTO PROPABILMENTE NON E LA STESSA PERSONA IN QUANDO PENSO NON SIA MAI STATO A TORINO E MILANO .CON QUESTO ESENPIO DI VITA MINUCCIO CI DIMOSTRA CHE NELLA VITA CI VUOLE FORTUNA MA LA FORTUNA TE LA FAI ANCHE RINBONCANDOTI LE MANICHE E COSTRUENDO PIANO PIANO LAVORANDO ONESTAMENTE,RINUNCIANDO A MOLTE COSE ,CHE IL LAVORO DISONESTO A LUNGO NON PAGA …

    • andrea toscano il 23 Settembre 2013 alle 15 h 15 min
    • Rispondi

    Mi ripeto. Scrive con una naturalezza che riesce a portarti non solo nei luoghi che descrive ma anche a pensare di conoscere le persone di cui parla. E’ piacevolissimo legggerlo.

Rispondi a giovanni Annulla risposta

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.