Come Eravamo : Pàni e cipùddha.

La Redazione & Minucciu

“S’èranu pìzziàti ppì nnà pàrtitèddha ì castàgni e dùi càtuòju, fìnu à mìnti mànu àru curtièddhu”. Dopo la lite Francìscu era sparito dal paese e Giuvannìnu era rimasto a brigare per levarsi di torno la legge che voleva intromettersi nei fatti suoi e del fratello. La colpa era tutta “ì tàta”, ì zù Pippìnu che in vita, come allora costumava, non aveva provveduto per tempo “à spàrti à rròbba” od almeno disporre come voleva che i beni di famiglia andassero divisi ed assegnati dopo la sua morte. Sapeva cosa faceva il vecchio e conosceva bene i figli, “rivinciùsi e stuòrti” come era lui ed aveva paura che si sarebbero comportati alla sua maniera una volta saputo come intendeva dividere il patrimonio. “Crisciùti àra scòla sùa”, agendo proprio come aveva agito lui, avrebbero trovato modo e luogo di mostrarsi insoddisfatti ed a lungo andare gliela avrebbero fatta pagare. Seguivano in questo le sue orme ed il suo esempio visto che “àvìadi fàttu mòri ntè piducchj ù patri” e da mezzo secolo aveva troncato ogni rapporto con fratelli e sorelle ritenendosi fregato perché l’eredità cui era compartecipe, in assenza di accordo, era stata divisa solo con l’intervento di giudici ed avvocati e questi ultimi erano costati metà patrimonio.

Giuvannìnu girava, rigirava e rileggeva la lettera appena arrivata e con la quale Francìscu per la prima volta dopo quarant’anni dava sue notizie. Gli comunicava che, da lì ad un mese sarebbe arrivato “ccù bbàpùri à nnàpuli” e lo pregava di mandare dal paese “nù sciàffèrru ccà màchina” a prelevarlo e di non preoccuparsi delle spese, avrebbe provveduto lui personalmente. La lettera era infarcita di espressioni dialettali paesane e con qualche errore o sgrammaticatura ma questo non sorprese Giuvannìnu, il quale, a quei tempi si riteneva a ragione ed era comunemente considerato “guòmminu i pìnna”, perché aveva frequentato tutto il ciclo delle elementari e sapeva mettere in fila un intero discorso senza errori. Francìscu invece si era fermato alla seconda classe; non ché fosse incapace o minorato, era solo un bambino impaziente, vivace e perennemente distratto, sempre con la testa altrove preso dai suoi pensieri e dalle sue fantasie. Questa poca inclinazione per lo studio aveva indotto zù Pippìnu ad impiegarlo in anticipo nelle attività familiari mentre Giuvanninu, più piccolo di un solo anno, continuava a frequentare la scuola. Questa circostanza fu uno dei primi motivi di contrasto tra i fratelli perché Franciscu riteneva di avere più meriti avendo contribuito per tre anni in più “àra ricchìzzi dà càsa”.

Francìscu scriveva che “ddhèra bbinùtu spìnnu ì pariènti e dò paìsi” e comunicava poche altre notizie, ma nessun accenno alle sue vicende personali ed al tipo di vita finora condotta. Giuvannìnu del fratello e del suo vissuto sapeva quasi tutto per via delle notizie che gli avevano dato altri compaesani emigrati. Sapeva della fame patita e della miseria vissuta da Francìscu quando si era dovuto allontanare dal paese ed aveva attraversato a piedi le montagne e trovato lavoro e ricovero prima presso “nù vàccàru” “ntà chiàna ì Càmpuluònghu” e poi presso “nù picuràru, ccù jàzzu” nell’altopiano di Campotenese.

In questa ultima località era entrato nelle simpatie di un procaccia salernitano che acquistava formaggi da spedire nelle Americhe e per il quale aveva preparato e servito uno speciale arrosto di capretto. Il commerciante aveva intuito le eccezionali qualità di cuoco di Fransìscu e la sua particolare inclinazione per gli affari per cui, dopo aver “gùntu ntè pòsti jùsti”, era riuscito ad ottenere un passaporto col quale lo aveva inviato negli Stati Uniti come suo uomo di fiducia.

Francìscu aveva contraccambiato concludendo buonissimi e redditizi affari e poi, ritenendo di aver pagato il suo debito di riconoscenza, iniziò a fare “bìsinìssu” in proprio. Ebbe coraggio e fortuna perché l’ambiente in cui il salernitano l’aveva introdotto non era proprio limpido e chiaro. Iniziò come cuoco aprendo sulla costa ovest “nà cantìna” dove serviva piatti della tradizione calabrese che in poco tempo divenne così nota e famosa che per consumarvi un pasto bisognava prenotare con settimane di anticipo. Facendo leva su innate qualità di carattere e su una intelligenza viva e pronta, estese il raggio d’azione ad altro tipo di affari scegliendo settore ed amicizie giuste; in pochi anni divenne un uomo ricco, abbastanza potente, temuto e rispettato. Pur non avendo contatti, non dimenticò mai il paese natio né venne meno l’affetto verso quel fratello dal quale si era staccato in malo modo.

In mezzo a tanta ricchezza e disponibilità avvertiva però un vuoto, qualcosa di indefinito un senso di insoddisfazione del quale non riusciva ad individuare origine e causa. Decise che poteva essere “ù spìnnu” e messo da parte l’orgoglio scrisse all’unico familiare rimasto la lettera di cui abbiamo detto. Giunto al paese, riprese un pò di vita ed abitudini nostrane ed un giorno chiese al fratello di organizzare una gita ”àll’àcqua ù mànghanu”, una scampagnata di quelle come usava una volta, “ccù tànta rròbba ì mangià, abbòja vìnu” e parenti ed amici con i quali mangiare, scherzare e divertirsi. Procurò tutto quel che riteneva fosse necessario acquistandolo presso i compaesani e mise assieme il tanto da sfamare un reggimento. Come accadeva in gioventù, Francìscu si dedicò agli arrosti, per i quali in paese era rinomato, mentre il resto della compagnia predisponeva cibi e vivande in qualità, varietà e ricchezza da apparire un festival, il meglio della produzione paesana. C’era tutta la gamma sandonatese di arrosti, salumi, insaccati, sottoli e sottaceti, ortaggi e frutta di stagione, dolci e poi tanti vini messi al fresco nell’acqua della fonte, uno scialo per gli occhi e per lo stomaco.

“Mmiènzu tànta gràzie’ddìa”, Francìscu scelse per se “ dùi ffèddhj ì vùcculàru, nà pìcchj ì salàtu è nnà cipùddha” e seduto con “ccà cudicèddha arripàta à nnù strippùni” iniziò ad

tagliare “ccù curtiddhuzzu nù vùccùni ì pàni, gùnu i salàtu o di vùcculàru e nù mùzzicu i cipùddha”, imboccando tutto con la lama a mò di forchetta, come faceva in gioventù “quànnu jìèdi a ffà pascùni”. Degustava ed assaporava ad occhi chiusi, non voleva perdersi nulla di quella delizia, di quella armonia di sapori che per tanti anni nelle americhe aveva tentato di mettere assieme e cercato di rendere reali. Mentre era li a gustare quei sapori mai dimenticati, capì la causa di quel senso di insoddisfazione che l’aveva accompagnato per molti di quegli anni. Capì anche che talune cose non possono essere replicate. Non era colpa dei prodotti, che pure in America aveva trovato originali e di buona qualità, era “l’ària pàisàna” quell’indefinito e misterioso fattore che rende i sapori cosi intensi e particolari, che non è esportabile e comporta il consumo del prodotto sandonatese sul posto.

Di li a poco sarebbe ripartito per ritornare nel suo mondo a curare gli affari. Non era affatto contento di lasciare il paese e si consolava perché si era riconciliato col fratello. Soprattutto aveva di nuovo gustato quelle bontà che lo riportavano alla sua gioventù, “àri vuccùni ì pàni”, al cibo povero, a quei sapori e gusti che neanche la ricchezza era riuscita a fargli riassaporare e dei quali, per anni, aveva sentito la mancanza.

Agosto 2013

Minucciu

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2 commenti

    • marianna il 21 Agosto 2013 alle 8 h 42 min
    • Rispondi

    Semplicemente meraviglioso:mi hai fatto rivivere la mia fanciullezza e gli argomenti che discutevano icommensali mentre “si mangiavanu na vuccunata i pani,na ffeddra i salatu o nu cigullajjeddru e nu bicchirieddru i vinu.”

    • Giovanni il 22 Agosto 2013 alle 20 h 23 min
    • Rispondi

    Per chi vive lontano questa è cosa sacrosanta, forse difficilmente comprensibile a chi è residente. Questo sentimento l’ho rivissuto, dopo alcuni anni, solo pochi giorni dopo lo scorso ferragosto quando con uno dei miei figli e la fidanzata abbiamo deciso di venirci a fare una passeggiata di alcune ore nei nostri boschi al termine della quale ci siamo seduti nei pressi del rifugio “piano di Lanzo” è goduti i bei panini farciti di prodotti della nostra terra e scolati un’ intera bottiglia di vino. Carissimo Minucciu a questo racconto si associa benissimo un sentimento di infinita nostalgia che come il tuo protagonista è difficile capire da cosa deriva.

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