Ciccilluzzu i Mastusciallu !!sagrestano , campanaro e bannnista !!

Luigi Bisignani

Da “Come Eravamo” Omaggio a Ciccilluzzu i Mastusciallu …

Attiàlupu.

“Attìa lupu” gli gridavamo quando appariva nelle vie e nei vicoli sandonatesi; e lui immancabilmente rispondeva “attia grupu”. Era la sua battuta spiritosa ed il suo modo di esorcizzare una natura che, nei suoi confronti, non era stata benigna.

(“Cicciu u Bannista”N° 2)

Procedeva sbilenco per via di una gamba che, non abbiamo mai saputo se per nascita o trauma, era restata notevolmente più corta dell’altra. Il fisico portava i segni di questa disarmonia perché, anche da fermo, pendeva tutto da una parte. Quando gli accadeva di fare una sosta, immancabilmente la gamba più corta la poggiava e quasi la avvolgeva al bastone che aveva sempre con se e lo aiutava a camminare per le tortuose ed affatto agevoli strade del paese.

Non era molto alto, di corporatura esile, coppola o cappelluccio perennemente sul capo, colorito olivastro e la pelle del volto “gnutticata” tanto da sembrare “arripicchiàtu”. Per dare l’idea, a parte la zoppia, fisicamente poteva interpetrare benissimo la parte della figlia nei film di Fantozzi, tanto era la somiglianza con l’attore.

Di nascita non era sandonatese ed era capitato in paese nell’immediato dopoguerra, a seguito del padre e sulla scia dei tanti boscaioli che venivano a cercare lavoro presso la Saffa, ditta che, s’era aggiudicata il taglio dei boschi sandonatesi ed aveva aperto cantiere in località Pantano.

Il babbo di Attiàlupu era un boscaiolo-segantino e doveva essere maestro in tale arte, per via del soprannome “Mastusciallu”, che significa appunto maestro nello sciaverare, sceverare, (dal latino experare, separare), ossia la capacità di squadrare un tronco e ricavarne previa tracciatura o una trave o assi di legname. In sandonatese l’arte di sceverare, era stata tradotta nel dialettale “sciallu”, da cui il soprannome.

Questo era il mestiere paterno col figlio operaio-aiutante e nonostante l’anomalia sottoposto a fatiche pari ad un giovane dal fisico normale,. Stando ai racconti dell’interessato ed alla voce comune, i rapporti interpersonali col padre non erano dei migliori, anche perché il genitore era notoriamente di pessimo carattere e sul lavoro pretendeva prestazioni non adatte ad un fisico minuto e per di più menomato. Non era crudeltà; probabilmente intendeva trattare il figlio come se fosse sano, non fargli pesare la menomazione. Era un metodo, piuttosto brusco, forse non il più adatto, ma la situazione quella era. Questo modo di vivere pesava ad Attiàlupu, il cui vero nome era Francesco, noto Ciccilluzzu, che, amante di un buon bicchiere di vino, quando gli veniva offerto da bere, non si esimeva dal raccontare cosa accadeva durante il lavoro, lamentando che, talvolta per errori a suo dire minimi, le aveva anche prese. Raccontava della fatica di tirare la sega, in aiuto al genitore, per ricavare tavole e tavoloni dai tronchi abbattuti, e della difficoltà a seguire la tracciatura su cui doveva scorrere la lama della sega.

Dopo anni vissuti così, decise di affrancarsi e lasciò l’abitazione paterna andando a vivere da solo. Con qualche sussidio del comune, piccole imbasciate, donazioni di privati e l’attività di banditore, riusciva a trarre di che vivere. Per un certo periodo fu aiuto sagrestano e campanaro. Gli costava fatica salire le ripide scale per raggiungere la cima del campanile e questa attività durò poco. Era spassoso vederlo circolare infagottato in vestiti, frutto di donazioni, che erano sicuramente di taglia superiore alla sua e che lui adattava alle bellemeglio, mediante cinture ed ardite operazioni di taglio e cucito. Dopo l’abbandono della casa paterna, i soliti “chiantamalanni”, durante le bevute gli misero in testa che doveva accasarsi e gli venne prospettato un elenco di candidate. Più furbo di quanto comunemente si credeva, non ci cascò mai; si scherniva e sosteneva che per il matrimonio c’era tempo, doveva pensarci.

Era patito della musica e durante le feste, quando la banda musicale girava per il paese, non era raro vederlo assieme a Barraccuni seguire o precedere la banda. Erano spesso seduti allo stesso tavolo della cantina a farsi il “quarto”, generalmente offerto e talvolta la serata finiva in lite per via degli “attizzamenti” dei soliti “chiantamalanni” che, dopo averli ubriacati, inventavano “frame” e li inducevano alla lite per puro divertimento. Siccome Ciccilluzzu era più sveglio e svelto di Barraccuni, quest’ultimo generalmente rimediava una bastonata e l’intervento dei presenti evitava sempre il peggio.

Altra passione di Ciccilluzzu era suonare l’armonica; ne possedeva una che teneva accuratamente avvolta in una pezza e custodita in una tasca interna della giacca, con chiusura assicurata da una spilla da balia. Quando c’era l’ispirazione, spesso dettata da terzi o provocata da una buona bevuta, si sedeva su un gradino ed improvvisava motivetti ballabili. Il motivo che lo ispirava di più era la “tiranteddha”; in più occasioni, liberatosi del bastone, accennava anche a ballarla ed era curioso vederlo muoversi, in circolo ed impegnato nella danza, quasi fosse una marionetta disarticolata e con movimenti che sfidavano ogni legge dell’equilibrio.

Diceva che non sarebbe morto mai perché quelli come lui erano eterni. Invece un giorno sparì e per sei mesi si ebbero vaghe notizie di un ricovero presso l’ospedale per una grave malattia, non meglio specificata.

Una mattina della fine del mese di maggio, quelli che sostavano davanti al bar “ara Siddhata”, in lontananza, davanti alla “chianca d’Artusu”, videro materializzarsi l’inconfondibile sagoma di Ciccilluzzu. Aveva un cappello a paglietta, chiara e nuova di trinca; indossava un vestito chiaro a righe grosse e multicolori, vistosissimo; cravatta, bastone nuovo ed un paio di scarpe di tela blu, tipo le mitiche “superga”, con suola in gomma. Appariva ringiovanito, di ottimo umore e persino col fisico meno sbilanciato del solito. Quando venne vicino fu chiaro che il vestito altro non era che un pigiama ospedaliero, con cintura d’ordinanza, che Ciccillu aveva adattato a vestito chiudendo il colletto ed apponendovi la cravatta. Disse anche che l’equipaggiamento che esibiva, e del quale era fierissimo, era dono dei medici ospedalieri che gli avevano dato altri indumenti che avremmo visto nei giorni a venire. Raccontò che mesi prima s’era sentito male e che l’avevano ricoverato all’ospedale. Li era stato girato e rivoltato come un calzino e poi gli avevano detto che la cosa era grave e che doveva operarsi, ma che non era certo ne uscisse vivo. Aveva accettato il rischio ed una volta rimessosi anche i medici si erano meravigliati che avesse portato a casa la pelle. Raccontava che l’avevano aperto come un capretto e che avevano asportato molto materiale. A riprova aveva scoperto il torso e mostrato una cicatrice che partiva dalla scapola destra, scendeva fino al fianco per poi risalire fino allo sterno. Per richiudere il vasto campo dell’intervento c’erano voluti più di cento punti di sutura. Voce comune asseriva che i medici ne avevano approfittato e compiuto un esperimento, ma non s’è mai saputo con certezza cosa Ciccilluzzu avesse patito.

La vita scorreva come sempre e Ciccillu, a buon vedere, era fermamente convinto d’essere divenuto immortale. Riferendosi all’operazione subita diceva: “dòpu quìru ch’èiu passàtu chìni m’àmmazzadi, ghja ommuòru mai”. Era convinto di avere guadagnato l’immortalità e, sulla base di questa sua convinzione, adattò di conseguenza la sua filosofia di vita, prendendo tutto ciò che poteva e che la bontà del prossimo e gli scarsi mezzi personali gli permettevano. Lo rammento così fino al 1963, anno in cui, come tanti altri, emigrai. E non ebbi più occasione di incontrarlo.

Seppi, qualche tempo dopo, che Ciccilluzzu, una mattina fu trovato esanime sulle scale dell’ufficio postale, sdraiato e con la gamba offesa appoggiata al fedele bastone. La morte, che secondo lui non doveva toccarlo mai, si era presentata durante la notte e lo aveva sorpreso e ghermito. Spero che, come spesso accadeva, al momento stesse dormendo o fosse ubriaco, il tanto da non accorgersi che la sua ultima aspettativa, in mezzo a tante altre nella vita, gli aveva donato una ulteriore delusione. Non era affatto un immortale.

“Attìa lupu”. Con questo scritto proviamo, in via provvisoria, a rendere possibile l’immortalità, anche per la gente comune. Un pezzetto te la regaliamo ricordandoci di te, che forse non hai portato lustro al paese che ti ha ospitato, ma tanta simpatia sì. Questo piccolo omaggio Lo meriti.

Marzo 2012

Minucciu

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3 commenti

    • silvio barone il 1 Marzo 2012 alle 9 h 32 min
    • Rispondi

    complimenti ha chi a reso omaggio a questa persona .

    • Giovanni Benincasa il 1 Marzo 2012 alle 15 h 03 min
    • Rispondi

    Si Signor Minucciu portò tanta simpatia e quest’omaggio lo merita veramente. Una persona bonaria che ha vissuto la sua vita nonostante tutto. Mi ha fatto piacere saper quanto scritto perchè di gran parte ne avevo perso memoria. Dopo tutto sono andato via da San Donato due anni dopo di Lei.
    Saluti!

    • Renzo il 2 Marzo 2012 alle 8 h 54 min
    • Rispondi

    ciao Minucciu,
    Ciccilluzzu andò via dalla casa paterna, stanco delle percosse che subiva dal padre, il quale altro che bonario, era terribile nei confronti del povero figlio, specialmente quando si ubriacava.
    Lo bastonava solo per il gusto di farlo, tanto era cattivo, e mi pare che fu lui che gli provocò grossi dispiaceri fisici.
    Ciao Renzo

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